Il racconto della domenica: Eravamo una famiglia felice di Alida Airaghi

 Il racconto della domenica: Eravamo una famiglia felice di Alida Airaghi

Illustrazione di Arianne Prette

Noi eravamo una famiglia felice.

Sì, direi proprio che eravamo quella che si definisce una famiglia felice. Bastantemente felice.

In cinque. Papà, mamma, io, le sorelline.

Papà Franco, mamma Gloria, io Sandro, e loro due: Monica e Lidia.

Adesso che sto per andare in pensione, dopo una discreta carriera come funzionario alle Poste, adesso che mi ritrovo vedovo, senza figli, con un sacco di tempo a mia disposizione, continuo a pensare al passato. Al passato più passato. Agli anni lontani dell’infanzia, della prima adolescenza. Quando ancora non si sa bene cosa succede al mondo, e in quale ruolo ti toccherà giocare, una volta cresciuto.

Allora, ero sicuro di vivere un presente che sarebbe rimasto eterno, senza dover cambiare niente di me, senza dover progettare la mia esistenza, o quella di altri.

Ero io e basta. Mangiavo, dormivo, giocavo, studiavo, guardavo la tv. Andava bene così.

Mi andava bene la mia stanza, con i poster dell’Inter alla parete, la scrivania con i fumetti di Tex, il microscopio del piccolo chimico, il mangianastri e le cassette, i miei dodici anni.

Mamma, papà, le sorelline.

Quando è nata Monica ero in seconda elementare. Mamma mi raccontava che per mesi, in casa, mi ero chiuso in un silenzio tenace e rancoroso, limitandomi a rispondere a monosillabi per le esigenze di pura sussistenza materiale. Non la volevo, una sorella. Credo non la volessero nemmeno i miei genitori, o meglio, non l’avevano programmata. L’idea di un figlio unico, maschio, li appagava totalmente.

Dopo undici mesi dall’inattesa secondogenita era arrivata anche Lidia.

Chissà a cosa era dovuta questa sorprendente fertilità di mia madre, ormai già in età da menopausa. Ci abituammo pian piano a loro, alle sorelline, e ci affezionammo anche, com’è ovvio che sia. E poi erano bellissime. Senza volerlo, diventammo addirittura orgogliosi di loro, pavoneggiandoci a ogni complimento estraneo. Io mi trasformai, in maniera inconsapevole e proditoria, in cavalier servente delle damigelle, nel tentativo infantile di assolvermi dalla gelosia e dal senso di colpa per non averle desiderate.

Non avevamo grossi problemi economici, i parenti ci erano vicini con discrezione, i vicini restavano discretamente lontani, e capitava raramente che i nostri genitori litigassero: insomma a me bambino sembrava che tutto procedesse nel migliore dei modi. La domenica uscivamo spesso a pranzo insieme. Papà era un buongustaio, e si faceva consigliare da amici e colleghi dove portarci a mangiare: in città, o nei paesi limitrofi. A volte ci spostavamo anche fuori dalla provincia, solamente per il gusto di scoprire posti nuovi e nuovi menù.

In auto cantavamo i motivi più in voga, oppure gli inni fascisti che mamma e papà avevano imparato da ragazzi. Ce li avevano insegnati senza alcuna finalità ideologica, per pura nostalgia dei loro anni giovani. A me piacevano, a squarciagola intonavo Giovinezza, giovinezza, Faccetta nera e mi esaltavo immaginando il ragazzo intrepido che lanciava un sasso contro i nemici, il balilla gigante nella storia. Crescendo, poi, mi sono vergognato dell’ingenuità con cui mi lasciavo trasportare dalla musica marziale, dal testo retorico, dal qualunquismo politico dei miei. Loro erano così, brave persone, buone persone, che non si ponevano domande al di là del quotidiano. Li amavo.

Però, quando raggiunsi i dodici anni, e Monica ne aveva cinque, e Lidia quattro, capitò una cosa, e diventai improvvisamente grande, improvvisamente triste.

Fino ad allora, ero vissuto in una sorta di limbo, fisicamente parlando. I turbamenti sessuali non mi avevano ancora sfiorato. Oddio, sì, avevo scoperto che maschi e femmine erano fatti in maniera diversa, e la rivelazione era stata piuttosto sconcertante, all’arrivo della prima sorellina. Ricordo lo stupore, anzi no: lo spavento, quando mi avvicinai al fasciatoio mentre la mamma le cambiava il pannolino. Mi sembrò le mancasse qualcosa di importante, pensai si fosse fatta male. Non servì che la mamma cercasse di tranquillizzarmi: «È una bambina, non fa la pipì come voi maschietti». Provai tanta pena, e nessuna curiosità.

Imparai presto a occuparmi delle sorelline in ogni momento della giornata, non solo a imboccarle la pappa, ma anche a pulirle dopo il vasino, a insaponarle nella vasca da bagno.

“Poverine”, pensavo. “Non saranno mai come me.”

Avvertivo confusamente la responsabilità di doverle difendere dalla cattiveria del mondo, per quella loro ingiusta e ingiustificabile menomazione. Le mie sorelline. Erano le mie sorelline. Io ero il fratello maggiore, il loro custode e protettore.

Era la fine della prima media (avevo da poco compiuto dodici anni, in maggio): fu allora che cominciai a pensare che la nostra famiglia non fosse del tutto felice.

Loro, forse, continuavano a meritare la felicità: papà, mamma, le sorelline. Loro, non io.

C’era un ragazzino, nella mia classe, si chiamava Edgardo. Diverso da noi già dal nome. Biondo, minuto, con un viso appuntito, topesco. I capelli lisci gli scivolavano lunghi sugli occhi, e lui li spostava con un cenno veloce della testa all’indietro. Era il figlio unico e viziato di una facoltosa famiglia proveniente dall’Europa orientale, Bulgaria o Ungheria, non ricordo. Nessuno in classe era mai stato invitato a casa sua, ma si capiva che era ricco dai vestiti che indossava, dalla macchina con cui la madre lo accompagnava a scuola, dai viaggi all’estero di cui continuamente si vantava. Soprattutto dal suo atteggiamento disinvolto e vivace, dalle risposte spesso sfrontate che dava agli insegnanti, dall’irrisione petulante con cui commentava le notizie dei giornali e gli argomenti trattati a scuola. Era basso di statura ma sembrava il più grande di tutti. Durante la ricreazione ci tratteneva con battute di ogni tipo, sfidava i compagni fingendo di boxare contro l’aria, saltellava addosso alle bambine con gridolini irritanti. Credo cercasse la mia compagnia solo perché mi trovava tanto insulso e mediocre da far risaltare meglio la sua superiorità. Più volte mi aveva chiesto di passare il pomeriggio da noi, per i compiti o per giocare. Si era presentato educatamente, affabile con la mamma, spiritoso con le bimbe.

«Sei fortunato ad avere due sorelle più piccole» mi ripeteva spesso.

Io annuivo, senza capire bene il perché di questa sua invidia. Le guardava intensamente, silenzioso, quando seduti sul divano davanti alla televisione facevamo merenda tutti e quattro insieme. Poi, ogni tanto, indagava sui nostri rapporti fraterni, con domande che mi infastidivano:

«Passi molto tempo con loro? Dormite insieme? Vi baciate?».

Intimorito, pensavo nascondesse un segreto, una pena, o un peccato.

Una mattina, a scuola, mi chiese senza nessun preambolo se le avessi mai viste nude. Ingenuo, ma anche orgoglioso, risposi che addirittura aiutavo la mamma a lavarle, a vestirle. Fu l’unica volta che lo vidi umiliato: «Non ho mai visto una bambina nuda, dal vero. Solo in fotografia». La voce gli tremava, e gettò indietro la testa, con il solito gesto per liberare la fronte dal ciuffo biondo. Qualche giorno dopo dichiarò, deciso, che sarebbe passato da noi dopo pranzo. Le sorelline lo aspettavano gioiose, mamma rilassata, io sospettoso. Sbrigate poche faccende in cucina, mamma ci annunciò che sarebbe uscita un paio di orette, approfittando della nostra sorveglianza maschile sulle bambine.

«Bravi, eh? Non le tormentate con i soliti dispetti. Torno presto.»

Edgardo era allegro, le sorelline cinguettavano. Lui d’un tratto propose con voce imperiosa: «Adesso facciamo il bagno a Monica. Anzi no, a Lidia. Anzi no, a tutt’e due».

«Perché?» chiesi io. «Perché fa caldo» rispose.

Loro felici lo seguirono nella cameretta, e anch’io.

Cominciarono a spogliarsi, restando in canottiera e mutandine.

Riempimmo tiepida la vasca, versammo il bagno schiuma fino a coprirla di soffici bolle. Le sorelline rimasero nude, le aiutammo a immergersi nell’acqua.

Erano lisce, morbide, dolci.

Edgardo era agitato, le guardava sospeso e guardava me, come aspettando un segnale.

Insaponò la spugna, cominciò a strofinare lentamente la schiena alla più grande, mentre io lavavo i piedi alla piccolina. Sembrava soffrissero il solletico, spruzzavano e schizzavano e ridevano.

Lui immerse le braccia nell’acqua fino al gomito, muovendo veloci le mani nascoste.

Respirava forte, ansimava.

Monica si fece seria d’un tratto, fissandolo interrogativa.

Il mio amico appoggiò la testa sull’orlo della vasca, chiudendo gli occhi, immobile.

Poi scattò in piedi, si precipitò nel corridoio, e sentimmo la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi con violenza.

Quando la mamma tornò, trovò noi tre silenziosi seduti sul divano, davanti alla tv.

Le mie sorelle oggi hanno più di cinquant’anni, sono entrambe insegnanti ed entrambe già nonne. Non credo che ricordino niente di quel lontano pomeriggio, erano piccole. Ma io ancora adesso, quando le guardo, provo un’ansia confusa e turbata, una pentita malinconia. Non ho mai raccontato questa storia a nessuno, non ho mai confidato la mia vergogna nemmeno a mia moglie. Tantomeno alle mie sorelle. Ho tenuto dentro di me disagio e colpa, la consapevolezza di un tradimento.

Forse solo oggi, che l’ho scritta per la prima volta su un foglio muto e neutrale, mi sento un po’ sollevato.

Alida Airaghi

Blam

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