Il racconto della domenica: Di paguri e ripetizioni di Caterina Villa
Oggi voglio fare un gioco, papà, spero non ti dispiaccia. Ti ricordi le sere in cui ti toccava farmi il bagno? Sì che te le ricordi. Il bagno era ancora quello vecchio, lungo e stretto come un tubo, e in fondo la finestra che dava sul parcheggio e quell’albero che non ho mai saputo che roba fosse, solo che era pieno di piccioni che divoravano bacche e inzaccheravano la tua Cinquecento blu. Mi facevi entrare nella vasca quando l’acqua era già calda, m’insaponavi i capelli, sempre in quella tuta grigia della Champions. Sì, te lo ricordi, lo so. Cantavi mentre mi asciugavi i capelli e il phon mi scottava le orecchie. Ecco, vorrei prendere una di quelle sere e provare a viverla come avresti potuto farlo tu. Infilarmi dentro il tuo corpo di trentaquattrenne, il neo sulla guancia destra, grosso e scuro, di cui ti vergognavi, gli occhiali tondi, la barba che ti eri fatto crescere perché te l’avevo chiesto io. Solo per quello.
Ecco che ti togli i vestiti da lavoro, ti sfili la cravatta, la camicia e i pantaloni e indossi la divisa delle docce e dei giochi sul tappeto. È lisa in più punti la tua tuta, con macchie di chissà cosa che ormai non vanno più via. Ti affacci alla porta della mia camera, ma non mi chiami subito. Mi guardi, una spalla contro lo stipite, la stanchezza che ti si accumula tra le vertebre, ti schiaccia giù insieme all’odore di disinfettante e di sangue.
Mi guardi mentre me ne sto rannicchiata sulla moquette, il ferro da stiro di plastica rosa davanti alla faccia. Ti accorgi che l’ho smontato tutto. Non hai idea di cosa ci stia facendo. Sono la tua prima figlia e non mi aspettavi. Vi avevano detto che di figli non ne avreste avuti e quella era una realtà che o ingoiavi intera o ti avrebbe strozzato. L’avevi ingoiata e poi dopo cinque anni mamma ti era venuta a trovare a Padova dove studiavi per la tua specializzazione; voleva dirtelo di persona, perché al telefono non riusciva a pescare le parole.
Mi guardi e la verità è che non sai bene cosa fartene di tutto questo, tu che sei sempre stato un po’ un paguro, come quelli che cercavi al mare per farmeli vedere, chiusi nelle loro conchiglie sul palmo della tua mano sempre abbronzata.
«Forza, è ora della doccia» ti decidi a dirmi e io mi giro, ti guardo. Pensi che ho gli occhi sempre un po’ tristi e la cosa aggiunge peso al centro della tua schiena stanca. Pensi che non vuoi che cresca come te, con un piccolo buco al centro intorno al quale si è organizzato tutto il resto. Cerchi di non spazientirti mentre mi lagno delle mattonelle ghiacciate. Mi pieghi piano un gomito per sfilarmi la manica del vestito. Ti fa ancora impressione la leggerezza del mio corpo, il fatto che le mie orecchie, i miei piedi, le mie mani siano così piccoli.
Odio l’acqua in faccia, lo hai imparato a suon di urla; quindi stai bene attento a schermarmi gli occhi con la mano mentre mi bagni i capelli. Non hai ricordi di tuo padre che ti faceva la doccia, non gli hai mai chiesto se lo avesse fatto. Sono tante le cose che non gli hai mai chiesto, eppure di ore insieme ne avete passate tante, nella sua auto grigia, su e giù per i sentieri di campagna, per andare a visitare le mucche, i maiali, i cani dei contadini.
Mi insaponi e mi chiedi come è andata all’asilo, mi domandi dei giochi che ho fatto. Non sai come si parla ai bambini e mi parli come si fa con gli adulti. Rispondi a tutte le domande che ti faccio anche quando ne inanello cinque, sei, sette di fila. Ti meraviglia il modo in cui la curiosità di una bambina di quattro anni non conosca limiti. Ti fanno sorridere i miei perché, ma sotto senti anche qualcos’altro che preme. È paura. Paura di non dare le risposte giuste, tu che ti rigiri nella testa ogni pensiero fino a che non è lucido, levigato, innocuo. Forse a farti impressione è il potenziale impacchettato nel mio piccolo corpo e ti sforzi di non perderti in mezzo all’infinita serie di possibilità, di non rimanere paralizzato. Chiacchieri e inventi personaggi di un mondo che è tuo e mio per evitare di rimanere chiuso dentro te stesso. Ci sono cani di re e regine, mostri del solletico, taverne popolate di maghi e nani. Ti ritrovi a sperare che essere padre diventi con il tempo una cosa più morbida e meno intensa. Sei figlio unico e hai passato ore della tua infanzia a fare a turno il cowboy e il pellerossa, l’astronauta e l’alieno. Non eri preparato.
Mi fai uscire dalla vasca, una mano sulla tua spalla, prima un piede e poi l’altro. Mi avvolgi nell’accappatoio, il vapore che ti appanna gli occhiali. Da quando sono nata, è diventato più difficile ignorare il modo in cui ti senti incompleto, come se da qualche parte ti mancasse un pezzo. Pensi che probabilmente ti manca da sempre, ma è adesso che ci fai caso, adesso che non riesci a fare a meno di infilarci il dito dentro per impararne a memoria i contorni.
Mi aiuti a infilare il pigiama, la tuta è fradicia, ma è caldo nel bagno e io ti sorrido. So cosa arriva adesso, e anche tu. Attacchi il phon e ti schiarisci la gola. Mica sai come ti è venuto in mente di cantarla la prima volta, ma hai capito che tua figlia è una creatura che ama le ripetizioni e così ormai ti tocca cantarla ogni volta. Non hai idea di quanto io riesca a stare dietro alle parole, ma sai che ti ascolto. Hai anche smesso di allarmarti per il modo in cui dondolo quando sono concentrata. Avanti e indietro, avanti e indietro. Mi segui con il phon e canti «suona un’armonica, mi sembra un organo che vibra per te e per me su nell’immensità del cielo». Io non so ancora come si chiama questa canzone. Per anni penserò che tu l’abbia inventata per me.
Passi le tue mani tra i miei capelli corti e pensi che prima o poi dovrai farmi sentire che suono fa un’armonica, e portarmi in un bel bosco, come quello di faggi che esploravi da bambino, e in montagna per insegnarmi a sciare. E poi ancora insegnarmi a dipingere e… ti gira un po’ la testa, il respiro ti si inciampa nei polmoni. Il buco che hai dentro fa male. Canti e pensi che non smetterai mai di avere paura. Canti e speri che possa andare bene anche così.
Caterina Villa