Il racconto della domenica: Con quanto fiato hai in corpo, Jimmy-boy! di Martino Costa

 Il racconto della domenica: Con quanto fiato hai in corpo, Jimmy-boy! di Martino Costa

Illustrazione di Vito Savino

«Jimmy-boy, devi attaccare l’assolo qui! Qui, Dio santo! All’accordo di settima.»

Jimmy-boy ciucciava la tromba come un moccioso. Guardava il Doc con gli occhi sgranati di un coniglio sotto tiro, nel mirino di un cacciatore. Perché il Doc, in fondo, un cacciatore lo era davvero.

«Sono tre sere, tre cazzo di sere che sbagli l’attacco. Ancora mi chiedo perché ti ho contrattato.»

Alle due del mattino, dopo sei ore confinati in quell’angolo di bar che puzzava di sudore e birra, il Doc ancora non la smetteva di ragliare e di pestare sui tasti. L’ultimo cliente si era addormentato, o forse era svenuto, su un tavolo in fondo, circondato da bicchieri mezzi vuoti. La donna delle pulizie, una negra di centocinquanta chili, ramazzava lattine e mozziconi con l’energia di un bradipo. Aveva un culo largo come il pianoforte del Doc e una ridicola retìna a tenere la massa ondeggiante dei capelli.

«Sono anni che suono in questa fogna di locale. Non è il Blue Note ma nemmeno l’angolo tra la nona e la cinquantaduesima da dove ti ho raccattato. Se vuoi tornare a farti tirare le monetine dentro il cappello accomodati, la porta è quella. Io questo posto me lo sono guadagnato con l’impegno, ho il mio pubblico e ogni settimana con la paga ci copro l’affitto e le spese. Se pensi che mi faccia fottere da uno sbarbato come te, stai fresco.»

Il Doc ingollò l’ultimo sorso di whiskey e poi diede un calcio allo sgabello e dichiarò chiusa la serata.

Jimmy-boy sorrise. Mise con calma la tromba nella custodia di pelle nera, chiuse i lucchetti color oro, lanciò uno sguardo alla cassiera sdentata e si avviò per le strade mezze vuote di Manhattan. Suonava con il Doc da tre mesi ormai, e ogni sera quella scena si ripeteva. Ogni volta per un motivo diverso. Mentre tornava a casa, in quella lunga passeggiata notturna, Jimmy-boy schivava sacchi della monezza e ubriachi con l’agilità di un ballerino di tiptap. La leggerezza era sempre stata il suo forte. Soffiava nella tromba con grazia, e gli usciva un suono elegante e graffiato che aveva fatto innamorare il Doc. Lo aveva scovato un pomeriggio di fine settembre in una strada laterale, vicino a Central Park. Era vestito come un pulcioso, ma suonava come un dio. Un ragazzetto di appena vent’anni, una zazzera bionda, un pizzetto appena accennato, metteva la cassetta con le basi dei classici jazz nel mangianastri e poi attaccava a suonare come se intorno a lui ci fossero solo mulinelli di foglie rosse e un vento sbarazzino a confondere le idee. Stava suonando Almost blue, e nelle lunghe pause teneva gli occhi socchiusi ciondolando come una canna da zucchero. Prima di attaccare si leccava le labbra e quindi soffiava in quella tromba un pianto lungo e profondo. Il Doc gli aveva buttato un dollaro stropicciato e gli aveva detto: «Bravo» poi era tornato a sentirlo per cinque giorni di fila, quasi incredulo, mentre a fianco migliaia di persone camminavano svelte, completamente indifferenti a Jimmy-boy e alla sua tromba. Alla fine il Doc gli aveva fatto una proposta seria, gli aveva detto: «Centocinquanta dollari a settimana, cinque sere, sei ore a sera. E suoni all’asciutto, ti danno un pasto caldo e una birra. Che ne dici?». Jimmy-boy lo aveva guardato con sospetto, aveva detto: «Tz-tz» e poi lo aveva salutato lasciandolo lì, come un imbecille, di fronte alla finestra di quel caffè chiuso da anni. Per terra c’erano mozziconi di sigaretta e un odore intenso di piscia e marijuana. Ma il Doc non aveva mollato il colpo. Come un cacciatore si appostava ogni pomeriggio aspettando la preda, e alla fine della sessione tornava alla carica, alzando la posta. Finché un giorno Jimmy-boy aveva detto: «Ok». Si erano accordati per la cifra di duecentocinquanta a settimana e per quattro sere invece di cinque. Il Doc aveva bestemmiato ma alla fine si erano stretti la mano. Jimmy-boy aveva accettato semplicemente perché l’inverno era alle porte e il freddo gli seccava le labbra, che dopo poco tempo si rompevano, e suonare la tromba diventava doloroso; e senza quei dollari che raccoglieva sul marciapiede faceva fatica a comprarsi da mangiare. L’inverno prima aveva perso due taglie e le costole gli avevano quasi bucato la pelle tesa come il rullante di una batteria. Odiava l’inverno, Jimmy-boy, e allora aveva sussurrato con la sua voce roca: «Ci sto, Doc, per me si può cominciare anche questa sera».

La verità è che a lui non importava nulla di dove suonava, e nemmeno si faceva troppe domande. Lui suonava e basta, quando aveva soldi si comprava da mangiare, se no perdeva peso come un cane randagio. Quando era stanco si buttava sul materasso di casa sua e dormiva come un bambino. La mattina si alzava e faceva una pisciata infinita che gli metteva allegria e appetito. Si bolliva un uovo, beveva un sorso di latte e poi si buttava per strada. Ma da quando il Doc lo aveva messo a contratto aveva scoperto un mucchio di belle cose. Aveva scoperto, per esempio, che alle donne che hanno passato i quaranta piacciono il jazz e i trombettisti biondi, magri e giovani. Aveva scoperto che le negre di centocinquanta chili a letto ci sanno fare davvero bene e in più ti fanno ridere dopo che avete finito. Aveva scoperto che gli piaceva molto la birra alla spina e suonare davanti a gente che chiacchiera, ascolta, ordina da bere, batte le mani e ti urla: «Dai Jimmy-boy, suonala!». Lui sorrideva e a fine concerto ascoltava gli insulti del Doc, che non era mai soddisfatto di niente e stemperava la rabbia con mezzo litro di bourbon.

Così aveva attraversato l’inverno, tra le braccia di Nora i giorni dispari, e di Lucy quelli pari, mangiando hamburger e zuppa piccante di spaghetti e funghi, suonando con il Doc, che lo accompagnava schiacciando i tasti bianchi e neri, giri di accordi rotti, sospesi, come le nuvole di fumo attorno al lampadario di cristallo e alle teste cotonate dei negri che venivano da Harlem apposta per ascoltare il Doc e vedere il suo faccione sofferente. Il Doc non conosceva altra vita che quella, da secoli se ne stava chiuso lì, come un ghiro in una tana calda, la scorta di cibo sufficiente a passare un inverno che non passava mai, e un pianoforte tirato a lucido ogni due settimane. Ma il Doc, che era sì un burbero e che non perdeva mai occasione di lanciarti un paio dei suoi insulti coloriti come un uno-due ben assestato sotto il mento, non era uno stupido e aveva capito che Jimmy-boy era fatto di una pasta diversa dalla sua. Il Doc aveva messo piede nei locali quando era un piccolo afroamericano, pieno di energia e con l’argento vivo tra le dita, e non ne era più uscito. Si era aggrappato al suo strumento come un naufrago avrebbe fatto con un scoglio in mezzo alla tempesta, e lì era rimasto. Così quando la primavera aveva fatto capolino tra i grattaceli di New York, aveva immediatamente capito che a Jimmy-boy cominciavano a prudere le mani.

E una sera gli aveva detto: «Sai Jimmy-boy, è da qualche giorno che ti vedo distratto, non so, annusi l’aria, saltelli sui piedi, non guardi più nemmeno le tette di Lizzy. Vuoi dirmi che c’è?».

Jimmy-boy aveva deglutito, aveva emesso un lungo sospiro e aveva fatto roteare la tromba tra le dita, come una majorette alla parata del 4 luglio.

«Jimmy-boy, io sono un vecchio musicista da piano bar, e per suonare qui ci vuole un culo di gomma e piedi pesanti. Tu non hai né l’uno né l’altro, e non so dirti se questo sia un bene per te o meno. Tu hai piedi leggeri e polmoni grandi come i palloni di una mongolfiera. Dagli tutto il fiato che hai in corpo, Jimmy-boy, e riprenditi la strada.»

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, mise la tromba nella custodia, e come un ballerino di tiptap se ne uscì risalendo le scale del locale a tre a tre. Quando raggiunse la porta si voltò un’ultima volta verso il Doc e gli strizzò l’occhio in segno di ringraziamento.

Poi Jimmy-boy spalancò la porta: l’aria era fresca, e la musica da suonare infinita.

Martino Costa

 

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *