Il racconto della domenica: Coca-Cola di Chiara Bertora
“Vedrai che il tempo passa e starai meglio” era il genere di cose che le diceva sua madre.
“Il tempo passa e sarò morta” era come di solito le rispondeva lei. Il tempo non è un galantuomo e nemmeno un bastardo. Per quel che ne sapeva lei, era come una Coca-Cola: può essere calda e sgasata o fresca e frizzante, può disgustarti o dissetarti a seconda delle volte; è capace di farti digerire ma anche vomitare. Sa adattarsi a una piccola lattina, a una bottiglia, o a un grande fusto alla spina. Tutti possono averla, costa così poco e sa essere buona, ma è acida, alla lunga ti corrode.
Quando la tristezza era così potente, quasi oscena, come in quel momento, pensare alle parole di sua madre, sapere che il tempo sarebbe davvero passato portandosela via, quella tristezza, la faceva sentire tanto male da farle affondare le unghie in quel suo istante di disperazione per non lasciarlo scappare.
Lo aveva lasciato.
Era la terza volta che cercava di farlo in quei quattro mesi, ma stavolta era stato diverso, definitivo. Dopo averglielo scritto, aveva spento il cellulare e camminato fino alla spiaggia di ciottoli grossi, quella più lontana dal centro, dove in inverno non incontri gente, solo qualche padrone di cane a far correre gli esemplari di grossa taglia. Infatti non ci trovò nessuno. L’aria era tiepida, nonostante fosse febbraio, ma non ferma. Una brezza consistente si alzava dal mare e le colpiva la faccia con mano pesante. Si sedette su una pietra rotonda. Teneva gli occhi socchiusi. Contraendo i muscoli della faccia scacciava il ruotare rapido di immagini che erano sassi tirati mirando allo stomaco: gli occhi verdi di Alessandro che la esaminano mentre prova una nuova montatura di occhiali; la sensazione netta di non poterseli permettere come del resto molte altre cose; la fila perfetta dei suoi denti bianchi, così luminosa, che si deforma mentre sfotte la pelle scura di Imad; la successione precisa delle parole orribili del suo post sui siriani al confine greco; la diffidenza che si prefigurava sulla faccia delle sue compagne quando avrebbe rivelato che era stata lei a voler troncare la relazione col ragazzo più figo del liceo.
Mentre fissava un punto qualsiasi nel mare, realizzò che in acqua c’era qualcosa. Mise meglio a fuoco. Qualcuno, forse una donna, stava nuotando. Riconobbe in lontananza il movimento tranquillo delle bracciate e una cuffia che da quella distanza sembrava rosa. Poco dopo la vide cambiare traiettoria e avviarsi verso riva. Quando la donna emerse col busto dall’acqua, notò che la cuffia in realtà era di un giallo pallido, a turbante, le copriva gran parte della fronte e si chiudeva sotto il mento, facendola assomigliare alla matrioska che sua nonna Adele teneva sul mobiletto verde in cucina. Indossava una maglietta nera di tessuto tecnico, quelle da snorkeling, ma quando fu completamente fuori, vide che aveva gambe e piedi nudi. A quella vista fu percorsa da un brivido violento, che non passò inosservato.
«Hai freddo?» le chiese la donna con una voce profonda, quasi maschile, che mal si sposava con la sua figura minuta.
«Cosa? Freddo, io? Sì, cioè, no, non ho freddo, grazie.» Le gambe della donna erano sode e lisce, nonostante la pelle del viso avesse perso il tono della giovinezza. Quando si tolse la cuffia, liberò un bouquet di riccioli vivaci ma non selvaggi, che le ricaddero a sfiorarle le spalle. Erano castani con qualche sfumatura colore del rame.
«Ti spiace se mi siedo qualche minuto vicino a te?» le chiese la donna, attendendo il permesso in piedi davanti a lei.
«Perché proprio qui?»
«Non si può dire che usi giri di parole» rispose la donna, lasciandosi sfuggire dalla gola un roco colpo di riso.
«Mi scusi, è che è un brutto momento, vorrei stare un po’ da sola.» Infilò la mano in tasca e afferrò il cellulare spento.
«Posso restare altri dieci minuti, devo tornare su a casa prima che siano le tre. Mi siedo qui e non ti disturbo. In cambio, se ti va, puoi chiedermi quello che vuoi.»
Quella donna era davvero strana.
«Okay, solo dieci minuti» le disse, poco convinta.
«Prima, però, vorrei rivestirmi.»
Lei alzò le spalle e sfilò la mano dalla tasca, lasciando il cellulare dov’era.
«Ti avverto che se mi rivesto, cambieranno le domande che vorrai farmi. Decidi tu.»
Alzò lo sguardo verso quella donna. Aveva gli occhi marroni non troppo scuri, come un bicchiere di Coca-Cola.
«Fa troppo freddo, si rivesta pure. Vorrei sapere cosa ci trova a fare il bagno in inverno, con questo ventaccio.»
La donna si diresse verso il muro che separava la spiaggia dalla strada sovrastante. Prese una piccola borsa di tela, che aveva agganciato alla doccia che fuori stagione non era in funzione.
Poi ritornò verso di lei.
«Nuoto nel mare tutto l’anno, quando non c’è nessuno in spiaggia. D’estate arrivo prima delle sei. Mi fa sentire al mondo, avvolta in un tutto che cambia senza avere contezza di me. E io non posso fare altro che starci dentro. Poi nei giorni freddi, come oggi, il mare mi fa sentire incredibilmente forte.»
Mentre parlava si sfilò la maglia tecnica. Sotto non indossava nulla. Comparvero due piccoli seni avvizziti dal freddo e forse anche dall’età, che la donna coprì subito con un vecchio asciugamano scolorito.
«Quanti anni ha?»
«Dovrebbero essere cinquantuno.» Infilò una canottiera in lana a costine. Poi allacciò l’asciugamano scolorito attorno alla vita, si tolse il costume e si infilò rapidamente delle mutande bianche a fiorellini piccoli.
«Sembra più giovane.»
«Ha importanza?»
«Per tanta gente sì»
«Per esempio per chi?»
«Per mia madre: è una delle poche cose che le piace sentirsi dire. Volevo farle un complimento.»
«Allora ti ringrazio.» Si chinò ed estrasse dalla borsa un indumento perfettamente piegato. Somigliava a un abito da sera, nero. Lo spiegò al vento, tenendolo per le spalle. Non era quel che sembrava.
«Ti avevo avvertita che, una volta rivestita, tutto sarebbe stato diverso.»
La donna si infilò la sua tunica e si sedette accanto a lei.
«Perché si depila le gambe se nessuno le guarda?»
«Amo sentirle lisce, proprio come piace a te.»
«A me non piace per niente» le rispose, alzando il tono di voce «mia madre a Natale voleva per forza regalarmi la luce pulsata. Ma mica l’avete capito che è il patriarcato a volerci senza peli, che ormai questi modelli esistono solo nella testa di quelle come voi.»
«Voi chi?»
«Su che ha capito.»
«Noi mamme?»
Si voltò a guardarla, stupita.
«No, volevo dire voi che siete più grandi di me.»
«Allora lo vedi che ha importanza anche per te questa cosa dell’essere giovani o vecchi.»
«Comunque sia, io i peli se voglio toglierli passo la lametta, se voglio farli crescere li lascio andare. Non mi piace una soluzione che sia per sempre.»
«Com’è finita con la luce pulsata a Natale?»
«Se l’è comprata lei, venti sedute su internet: ci sta andando da sola.»
«Hai pensato che potresti averla ferita?»
Si voltò verso la donna, seccata. Che diavolo voleva da lei? Dietro alle sue spalle, vide in lontananza una figura che stava scendendo le scalette che dalla strada portavano al mare. Strinse le palpebre per guardare meglio. Era un ragazzo con lo stesso giaccone blu scuro con il cappuccio di Alessandro, quello con la scritta bianca gigante sul petto, però ce l’hanno in tanti, tutti uguale. Il cuore le salì verso la gola. Anche la donna si voltò a guardare nella stessa direzione.
«Vuoi che me ne vada?»
«Resti qui», disse. E poi ancora: «Per favore».
Il ragazzo si fermò, accese una sigaretta e si mise a tirare sassi nell’acqua. Non era lui. Si sentì sollevata e nemmeno se l’aspettava. Lo aveva lasciato sul serio, allora.
«Lui c’entra con la tua giornata nera, vero?»
«Sono io quella che fa le domande, così sono i patti.» Tornò a guardare il mare. «Porta anche il velo, vero? Che senso ha avere i capelli curati e non farli vedere a nessuno?»
«Oh, già, hai ragione, lo devo mettere subito e andare via. La superiora mi dà un permesso speciale per venire qui, ma a patto che non stia fuori più di un’ora e mezza. Non sarebbe giusto per le altre.»
Si voltò e tirò fuori un velo semplice, nero come l’abito. Se lo sistemò come si indossa una cuffia in piscina, avendo cura di infilare dentro tutti i capelli.
«Desidero sapermi bella, sai. Non so se abbia a che fare con il patriarcato. Ci pensi che potrebbe essere addirittura una specie di atto femminista? Di sicuro so che per il momento ha a che fare con me, come per te il tuo giorno difficile.»
«Lei pensa che passerà?»
«Diventerà altro. Forse con molti bagni freddi, saremo tutte e due abbastanza forti: da lasciare andare tu la tristezza, io i capelli grigi.»
Si sorrisero.
«È suora da molto?»
«Quattro anni.»
«E prima?»
«Prima ho vissuto un’altra vita che adesso non c’è più. Non ci sono domande a cui potrei rispondere su quel tempo.»
«Come una bottiglia di Coca-Cola finita?»
«Dici?»
«Un qualcosa di vuoto, che non serve più a niente.»
«Forse è più o meno come dici tu: ero una bottiglia vuota. Ma quando ti accade una cosa brutta, come magari a te adesso, e a me quando mi è successa, ogni giorno che passa – la mattina che diventa sera e poi di nuovo mattina – è una benedizione. Ti trasforma, ti svuota e poi ti riempie. E alla fine diventi altro: adesso non sono più vuota, sono diventata un vasetto di fortuna per un fiore raccolto per strada.»
Chiara Bertora