Il racconto della domenica: Brucia Solidarność di Riccardo Ielmini

 Il racconto della domenica: Brucia Solidarność di Riccardo Ielmini

Illustrazione di Valentina Cascio

Quando erano al sesto, settimo round di Tyskie fatta arrivare apposta da Danzica, allora si lanciavano il guanto di sfida ai tre giri di vodka. Un teatro di voci, rutti e manate. Io ero cresciuto con il culto iper-religioso di Solidarność e non potevo crederci che la Polonia fosse tutta lì, a quel tavolino dove quattro donne imponenti si scolavano mezzo bar. I vecchi, che sugli stranieri di pelle bianca adoperavano una sporca cautela, le chiamavano il club delle badanti polacche, sigillandole ben fuori dal loro tirare a campare. Per me il club era una riserva di caccia della ditta Tyskie, ugualmente fuori dalla terra dei nobili ricordi della mia infanzia: non potevano mettere piede nello scrigno in cui avevo immaginato il corpo di Jerzy Popiełuszko galleggiare nel gelo della Vistola. All’apice del loro delirio, poi, saltavano fuori con quel grido «płonie Solidarności!». Lo urlavano mettendo giù lo svasato di vodka. Per molto tempo pensavo fosse l’equivalente polacco del barbarico «yawp!» che avevo visto campeggiare sulla lavagna in quella scena dell’Attimo fuggente.

A quel grido e a quel disgraziato di Jerzy Popiełuszko come un sacco di patate che va alla deriva verso il nulla o verso le palafitte aeree della santità pensavo anche quella sera, mentre camminavo il giro lungo per tornare a casa. Avevo la grande acqua alla mia sinistra, il lago segnato in su e in giù dalla lama di due traghetti. Il gelo di gennaio doveva essere simile alla Vistola sanguinaria dell’ottobre 1984. Vent’anni prima, più o meno, ma mi sembrava di essere ancora là, davanti al vecchio Inno Hit a guardare il telegiornale con mio padre che dice «il povero cristo di Jerzy» con la sua faccia da mahatma, uno che non si masturba, non beve forte, non fuma, ma pensa solo a erigere il suo destino di grande amico.

Alla quarta panchina bullonata, a un centinaio di metri dalla grande bolla di luce dell’imbarcadero, era seduta la donna: una delle badanti che avevano bruciato la riserva di birra e vodka del minuscolo bar dove avevamo tutti condiviso un pezzo di quello che i manuali di dottrina chiamano il cammino del cristiano (Jerzy non avrebbe mai usato un’espressione così insipidamente new age nel bel mezzo dell’ora nera di Jaruzełski). Aveva la testa reclinata all’indietro, braccia larghe sul bordo alto della panchina e gambe lungo-distese: sembrava in croce e le mie sinapsi super performanti, che mi costringevano a cicli bimestrali di Lexotan per evitare di fare i conti con la felicità, mi portarono dritto a pensarla come a una strega bruciata durante un repulisti messo su dal Santo Uffizio. Mi fermai a una ventina di metri da lei. Arrivò una specie di rantolo lungo e poi qualcosa di articolato: era ancora «płonie Solidarnooości», questa volta strascicato come un lunghissimo lamento, senza il brutale impeto dello «yawp!» nell’aula del professor Keating. Si girò verso di me.

«Cosa vuoooi.»

«Tutto bene?» L’animus del samaritano e un corso di otto ore alla Croce Rossa avevano ispirato la domanda. La donna sguainò una risata emblematica.

«Tutto bene, nooo?»

Feci qualche passo in avanti. Ero vicino e la donna si sollevò sulle braccia e ritirò le gambe, mettendosi seduta. Sbuffò e prese aria: un lungo respiro che non prometteva nulla di buono, ma non successe nulla. Afferrò la borsetta. Pescò un pacchetto di fazzoletti di carta e armeggiò un buon tempo per aprirlo: ne estrasse uno, si soffiò il naso e lo rimise nella borsetta. Tirò fuori anche qualcosa che si passò sulle labbra. Poi mi guardò.

«Tutto bene, ragazzo-amore-tesoro, tutto bene. Solo mi viene da piangere.» Riprese il fazzoletto usato e si asciugò le lacrime. Adesso vedevo le mani enormi che si destreggiavano cercando di non fare danni sulla linea di matita nera al contorno occhi. C’era stato un momento in cui era stata desiderata e su certi condizionamenti Pavlov non sbagliava mai. Un altro tempo di desideri: una mano che stracciava una camicetta in un retro vicolo di Ulica Długa a Danzica. Invece la sirena di un traghetto fece capire che eravamo tutti qui, in questo momento.

«Ho bevuto troppo, amore tesoro» disse. «Come ti chiami?»

Le dissi come mi chiamavo, ma lei sembrò non dare troppa importanza alla cosa.

«Tu, amore tesoro, tutto bene?»

«Tutto bene.» Non valeva la pena parlare di grandi macchinazioni sul destino, o di fischi di sirene o di felicità, o di Lexotan, o di corpi galleggianti nella Vistola.

«Sempre tutto bene, voi ragazzi. Tu porti me a casa? Vuoi?»

«Ok.» Mi avvicinai e la aiutai ad alzarsi. Abbassò sulla fronte la cuffia nera che indossava: una ciocca di capelli biondi le scese sugli occhi e lei la rimise a posto. Magari vent’anni prima aveva tirato giù la cuffia nello stesso modo prima di intrecciare le braccia a quelle di migliaia di polacchi in marcia verso il porto di Danzica. O forse no: magari era impegnata nei rimestamenti di desideri nel retro vicolo di Ulica Długa. O forse tutte e due le cose. Prese la borsetta. Agganciò il braccio al mio e si mise alla mia sinistra: la muraglia di un corpo di un metro e ottanta fra me e le pieghe brune del lago, regno brulicante di lucci e altri incubi. Mi indicò la strada: una vecchia casa di ringhiera sul retroterra in ombra del vecchio porticciolo. Ci superava la fila di macchine scese dal traghetto che aveva attraccato: due su tre tiravano dritto fino alla Svizzera dei privé e delle puttane. Non disse nulla per i cinque minuti di camminata. Io controllavo il vapore dei nostri fiati come la fotografia dell’ennesimo inverno da affrontare. Arrivammo alla casa. La aiutai a salire le scale che andavano ai ballatoi del primo piano. Davanti al portone tastò di nuovo nella borsa, sbuffando, ma alla fine mi chiese di trovarle le chiavi. Mentre spulciavo sul fondo di fodera rossa, lei si tolse la cuffia: si ravviò i capelli e sistemò la giacca sui fianchi. Fece un lungo respiro: non come quello di prima, ma non successe nulla anche stavolta.

«Ecco» le diedi le chiavi e la borsetta.

«Grazie, amore tesoro.»

Girò la chiave nella toppa e appena aperta la porta allungò a memoria la grande mano per girare un vecchio interruttore in ceramica.

«Entri?»

Sapeva che non l’avrei fatto. Guardai di lato e non trovai di meglio che chiederle cosa significasse il grido che facevano all’ultimo sballo di vodka.

«Oh. Tesoro. “Brucia. Solidarność brucia”.»

Non serviva chiedere perché. Era il territorio del club. Mi guardò come se le ricordassi qualcuno.

«Fa freddo. Devo fare pipì» disse.

Poi si allungò e appoggiò le labbra sulle mie: il tempo perché riuscissi a respirarci dentro. Quando si staccò, sorrise e lasciò la porta aperta. Forse avrei dovuto cedere all’inclinazione che avevo per gli ubriaconi. A undici anni, tornando da scuola, avevo incrociato un vecchio amico di mio padre che aveva perso tutto dopo la chiusura dei grandi stabilimenti. Era ubriaco. L’uomo mi aveva sollevato da terra afferrandomi per il bavero e mi aveva baciato sulla bocca. Il tempo di respirarci dentro. Quando ero arrivato a casa, non avevo detto niente ai miei. Mi ero lavato i denti con il dentifricio e la bocca con una brusca passata di sapone, ma il respiro che era passato non era andato via. Intanto la donna sparì all’angolo del corridoio e vidi un paio di luci accendersi. Magari aveva un ripostiglio stipato di vecchi samizdat ciclostilati dei tempi andati, fatti arrivare per posta insieme a una cassa di Tyskie. Il quartier generale di quella memoria di desideri. Rimasi fermo qualche secondo, prima che le mille antiche raccomandazioni a guardarsi dagli sconosciuti facessero il loro corso; quindi presi su e me ne andai. Scesi le scale contemplando il vapore del mio fiato. Quando arrivai a piano terra, sentii sbattere la porta dell’ingresso. Ero nel cortile vuoto, con le ombre bislunghe di una luna gelida, e guardai in su, verso il ballatoio, dove il fantasma di Jerzy Popiełuszko usciva trafelato da quella porta e percorreva a falcate il ballatoio, un samizdat ciclostilato sottobraccio come una baguette e la sua anima buona brandita come un tizzone nella notte del mondo.

Riccardo Ielmini

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *