Il racconto della domenica: Anche le stelle, piano di Gianni Somigli
Una mattina di fine agosto Tosco Fabbri concluse che era arrivato il momento di raggiungere un compromesso con Dio.
Salì sulla Panda 4×4 del 1986 e piombò in paese. Parcheggiò davanti alla facciata severa e grigia della piccola chiesa che lui frequentava di malavoglia solo per matrimoni e battesimi: «Don Vino,» disse entrando in canonica «qua bisogna mettersi d’accordo: io non lo so se il tuo principale e tutta la corte esistano o no, ma inizio a diventare vecchio e qualche domanda comincio a farmela».
Il prete posò il bicchiere sul tavolaccio di legno della cucina e si passò sulla bocca la manica del maglioncino nero: «Di che parli, Tosco?».
«Parlo che non so quanto mi resta da campare. Mi sento un ragazzo ma non posso mica fare finta di nulla. Se il tuo principale esiste, è bene arrivare preparati quando sarà il momento.»
«Chi si deve preparare, te o lui?» sorrise, il prete, che aveva già portato la prima bottiglia di vino nero a metà anche se ancora non si era fatto mezzogiorno.
«Tutt’e due. Sempre se esiste.»
«Ma non eri comunista, te?»
«Certo. Lo sono ancora. Ma ora sono anche vecchio.»
I due si guardarono un attimo e poi risero insieme. Quella risata aleggiò per la canonica triste come un fantasma che ha perso la strada di casa.
Il prete afferrò la bottiglia e versò due generosi quarti, uno per sé e uno per Tosco. Lo conosceva da cinquant’anni, forse di più, ma quella era la prima volta che aveva chiesto di parlargli.
«Va bene, sentiamo» disse il parroco, che non si offendeva quando lo chiamavano don Vino e non don Rino perché dopotutto era un buono di cuore e un allegro.
Tosco scolò il suo bicchiere in una botta sola. Poi si asciugò le labbra e i baffi con la manica della camicia di flanella a scacchi rossi e neri. Il prete si sentì allo stesso tempo sollevato e amareggiato.
«Lo sai che periodo è?» chiese Tosco.
«A me lo chiedi? È quasi vendemmia!»
«E te sai che quei maledetti cinghiali e caprioli sono peggio dei nazisti, vero?»
«Ora non esageriamo, però sì, purtroppo ho sentito dire che…»
«Purtroppo una sega, prete! L’anno scorso lo sai quanto ci ho rimesso? Un monte ci ho rimesso! Animalacci schifosi, devastano tutto, mangiano tutta l’uva, animalacci velenosi.»
Il prete annuì. Il tono di Tosco era un tantino esagerato ma il problema esisteva, eccome. Solo, non capiva cosa volesse il contadino da lui.
«Più che fare un patto con Dio ti converrebbe parlare con quelli della Provincia. Ti sapranno aiutare più di nostro Signore. Almeno su un piano materiale.»
«E pensi che non ci abbia parlato? Uffici, telefonate, fax… Ho preso per il bavero il sindaco, e quello mi ha detto di chiamare la Provincia; sono andato alla Provincia e ho preso per il bavero un tizio. Pensavo fosse un assessore e invece era uno che non c’entrava nulla. Comunque bisognava parlassi con la Regione, m’ha detto.»
«Che ti hanno detto in Regione? Chi hai preso per il bavero?»
«Nessuno, non ci sono andato. Non ho mica tutto questo tempo libero per andare in giro a farmi prendere per il culo» brontolò Tosco, porgendo il bicchiere vuoto.
Il prete versò: «Che mi stai chiedendo, di intercedere con Dio per congelare gli animali?».
Tosco lo bloccò alzando per aria una mano callosa e antica: «Momento» disse perentorio. «Non chiedo nulla. Io propongo.»
«Cosa?»
«A quelle bestie ci devo pensare da solo e ci penserò da solo. Tanto reti di ferro, musica, luci, non gliene frega nulla. Anzi. Pare ci godano. Ballano il tango mentre mi fregano. Ci penso io.»
«E la tua proposta? Non capisco.»
«Devi dire al tuo capo due cose: la prima, che non deve tenere conto delle bestemmie di questo periodo. Diciamo da agosto a ottobre. Pigliamola larga per stare tranquilli.»
Il prete non sapeva se piangere o ridere: «Io non credo che…».
«Rino, ascolta me: sono sempre stato sicuro che non esista nulla da quando tiriamo il calzino in poi. Al cento per cento. Ora la percentuale è calata e sono diventato sicuro al novantotto per cento. E siccome da agosto a ottobre quegli animalacci mi fanno impazzire, nel caso in cui il tuo capo esista vorrei mettere in chiaro che tutte quelle bestemmie, come dire, non sono vere, insomma, non sono sentite. È come se non fossero bestemmie, insomma.»
Don Rino tossicchiò qualche mezza parola col fiato tannico. Non sapendo dove l’uomo volesse arrivare decise di stare al gioco, sempre che di gioco si trattasse: «E la seconda cosa?» chiese.
Gli occhi di Tosco, incavati e vivi, sembrarono serrarsi e luccicare di una luce estranea al mondo caritatevole del parroco: «La seconda» disse Tosco Fabbri «è che in questo periodo il tuo capo si volti dall’altra parte quando sente una schioppettata più del solito e in orari più strani del solito».
Don Rino ebbe un sussulto. «Sei impazzito?»
«Te non preoccuparti. Allora, dimmi: pensi di poter rappresentare le mie richieste ai piani alti?»
Il prete si era alzato e aveva travasato un altro mezzo fiasco di vino nero dalla damigiana in dispensa. Non era sicuro di avere davanti una persona nel pieno delle sue facoltà mentali e quell’ultimo passaggio lo aveva inquietato, quasi spaventato.
«Non so. Perché non glielo chiedi tu?»
Tosco eruppe in una risata: «Ma chi, io? Mi ci vedi a pregare?».
«Ammettiamo che ti dica di sì» proseguì allora il parroco. «Però hai solo fatto richieste, e hai parlato di pace quando… Va bene, lasciamo perdere. Hai solo chiesto. Cosa sei disposto a dare in cambio?»
Tosco Fabbri trattenne a stento una bestemmia, che si trasformò in un vaporoso sbuffo alcolico a pochi millimetri dalla bocca. «Lo sapevo, nemmeno lassù si fa nulla per nulla.»
Don Rino lo redarguì con un’occhiataccia di quelle che di solito riservava ai bambini che, durante il catechismo, giocavano con i telefonini o si scambiavano strani video. «Insomma?»
Tosco si lisciò i baffi grigi, soppesando la contropartita da mettere sul piatto. «Bene, ci sono. Per la prima richiesta, posso proporre un riequilibrio della bilancia: io bestemmierò molto di più e molto più a lungo, quindi chiederò a Teresa di pregare molto di più e molto più a lungo.»
Il prete non riuscì a trattenersi, stavolta, e cominciò a ridere: «Non puoi essere serio. Dai, vai a casa, che è quasi ora di desinare e se ricordo bene Teresa è un’ottima cuoca».
Impattò sul muso di Tosco, del tutto inespressivo.
«Sono serio. Dite che quando ci sposiamo si diventa una persona sola, no? E allora ecco qua. Io bestemmio, lei prega. Mi pare onesto e ragionevole» poi continuò. «Per la seconda cosa, invece, prometto in cambio di chiudere la doppietta in cantina e non tirarla fuori per tutto il resto dell’anno. Niente fagiani né tordi, né lepri. E toglierò anche i lacci dalla vigna, dopo ottobre, va bene?»
Il prete squadrò l’uomo: «E verrai in chiesa tutte le domeniche?».
Il contadino si ritrasse come se qualcuno gli avesse infilzato una roncola incandescente nella schiena. Senza rilassarsi, rispose: «No!».
«Allora…»
«Ok, ok. Una volta al mese, meglio non posso fare. Forse quando sarò sicuro che Dio non esiste sotto al novanta per cento potremo ridiscutere i termini dell’accordo.»
Non appena era tornato a casa, Tosco aveva detto a Teresa che da quel giorno stesso avrebbe dovuto pregare il doppio rispetto al solito. Anzi, il triplo. Quando la donna gli aveva chiesto spiegazioni, lui le aveva risposto che si facesse gli affari suoi e che si limitasse a dire tre avemaria invece di una, anzi quattro, meglio cinque, e anche una decina di padrenostri e di tutte quelle altre filastrocche di cui Tosco non conosceva neanche il titolo. Teresa non aveva protestato. Lei pregava sempre, di continuo, mentre rammendava, cucinava, raccoglieva i pomodori o cercava gli asparagi nella macchia prima del bosco. Dio non aveva bisogno di sentire la sua voce per sapere che stava pregando. Si limitò quindi ad annuire e a dire: «Va bene».
Dopo quell’accordo, le notti di Tosco Fabbri si fecero leggere ed eroiche. Con la sua doppietta si aggirava silenzioso tra i filari delle vigne, quella vecchia, di sotto, e quella nuova, di sopra; nel buio quasi totale, fatta eccezione per il lucore morbido e tenue della luna o delle stelle, sparava a qualsiasi cosa si muovesse nell’oscurità per difendere la sua vendemmia. In pochi giorni erano caduti sotto i suoi colpi sei cinghiali di cui due appena nati, una volpe, tre cani e quattro caprioli. Le carcasse al mattino erano rigide e puzzolenti. Tosco le trovava facilmente: bastava seguire il ronzio delle mosche. Alcuni colpi erano andati a vuoto, ma aveva sentito scappare quelle bestiacce velenose verso il bosco senza emettere un fiato. Non gli interessava seguire le tracce di sangue e budella che lasciavano: che morissero pure tra le sofferenze più atroci, visto che avevano deciso di sfidarlo. Non temeva che qualcuno spifferasse alla venatoria o ai Carabinieri: la fattoria più vicina era a tre chilometri, quella dei Cecchini, e sapeva che anche loro stavano seriamente pensando di adottare la sua stessa strategia di difesa quando sarebbe arrivato il momento delle pesche. Non temeva nemmeno il giudizio divino per ciò che faceva e per le eresie con cui condiva il tutto. Si sentiva già assolto e questo lo faceva sentire bene, implacabile e giusto.
La vendemmia era vicina e Tosco iniziò a congratularsi con se stesso per aver difeso il suo fortino dall’attacco degli indiani. Il tempo era stato generoso, quell’anno. Pioggia giusta al momento giusto e un caldo di quelli buoni, che rendono l’uva piena e dolce. Tosco non lo avrebbe mai ammesso con nessuno, nemmeno con la moglie, ma viveva ormai in una condizione di coscienza alterata, in una dimensione quasi onirica. La mancanza di sonno, l’età, la stanchezza, i chili e il vino avevano reso il mondo come se fosse sempre il momento poco dopo il tramonto. Non se n’era reso conto, preso com’era dalla sua missione e confortato dalla tangibile benevolenza di Dio, ma un paio di volte aveva rischiato di spararsi su un piede. Restavano solo due giorni all’arrivo della squadra: gli uomini sarebbero arrivati lunedì all’alba, come ai vecchi tempi. Tosco imbracciò il fucile e uscì per una delle sue ultime ronde notturne. Imboccò il sentiero che portava alla vigna di sopra quando era visibile ancora qualcosa, e nei limiti in cui gli era diventato possibile vedere. Percorse il perimetro esterno dei filari tendendo l’orecchio senza sentire alcun rumore. Allorché scese verso la vigna di sotto, quella vecchia, il rumore dei suoi passi e il suo respiro pesante venivano ormai inghiottiti dal buio. Gli sembrò di sentire grufolare a qualche decina di metri verso il bosco, si fermò: rimase in ascolto pochi secondi, poi decise di sparare. Un grugnito sordo e spaventato si allontanò verso gli alberi. Maledetti bastardi schifosi, pensò mentre ricominciava a camminare. Con la coda dell’occhio vide qualcosa. Pensò a un’allucinazione. Era da quando aveva sei o sette anni che non aveva più visto le lucciole nei suoi campi. L’inquinamento, le luci, tutta quella robaccia che erano costretti a usare per le piante per non farle ammalare: era convinto si fossero estinte, da quelle parti.
E invece eccole lì.
Ne vide una, dapprima, alla periferia estrema e stremata del suo campo visivo. Quando mise a fuoco lo spettacolo davanti a sé si sentì pervadere da una commozione sconosciuta, totale: erano decine, centinaia, piccole luci gialle intermittenti che galleggiavano nel nero con movimenti fluidi, di fata.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime di fronte a quello spettacolo inatteso e benedetto, così la figura nera che comparve improvvisa in mezzo a quel groviglio acquoso lo fece urlare per lo spavento e per la rabbia: «Maledetti!» gridò imbracciando il fucile e puntandolo verso la figura nera che ora non si muoveva più: immobile, come stanno immobili gli animali gli istanti che bastano per fiutare il pericolo, per avvertire la morte. Sparò una, due, tre volte. Bestemmiò una, due, tre volte. «Maledetti!»
L’eco degli spari si dissolse, e un silenzio buio calò sulla vigna. Anche le lucciole erano scomparse. Tosco Fabbri scoprì di aver smesso di lacrimare, ma qualcosa non andava. Lo sentiva lì, pesargli sul petto. Non lo lasciava respirare. Cercò di calmarsi, inspirando più a fondo che poteva. L’unico effetto fu quello di tossire con una violenza tale che fu costretto a piegarsi in due e infine a chinarsi sulle ginocchia. Ogni respiro era una battaglia. Un dolore acuto e spaventoso si irradiava dal torace verso le costole, le braccia, le gambe. Il fucile gli cadde di mano. L’uomo si portò le mani alla gola, poi sul petto, poi sul volto. «Dio» mormorò. Altro che accordo. Era stato fregato. Si ritrovò sdraiato a terra. Sopra di lui il cielo era enorme, più enorme di come lo ricordava. E c’erano le stelle. Tante stelle. Ma c’era altro, e lui se ne accorse. Giusto in tempo per essere sicuro che da lì a qualche minuto sarebbe sprofondato per sempre all’inferno. Le lucciole erano tornate a lampeggiare a mezz’aria, lente, caparbie, ed erano decine, centinaia, migliaia. Erano innumerevoli. Innumerevolmente più di prima. Tosco Fabbri allungò una mano per accarezzarle per un’ultima volta.
E la vide.
Nella luce morbida delle stelle e delle lucciole Teresa era a terra e non aveva più la faccia. La riconobbe subito. Dalla vestaglia, gli scarponcini, dal rosario che stringeva in mano. Il rosario che lo aveva pregato di portare con sé quella sera perché, gli aveva detto, qualcosa incombe e mi fa paura. Il rosario che lui non aveva preso, forse per dimenticanza, forse per scelta. Il rosario che era uscita per dargli per quella penultima notte di guardia alle sue vigne, al suo vino, al suo raccolto, perché aveva paura per lui. Le luci divennero più fioche. Sempre più fioche. Tosco Fabbri non capì se le lucciole se ne fossero andate o se i suoi occhi non fossero più in grado di vederle.
Poi anche le stelle, piano, si spensero.
Gianni Somigli