Il racconto della domenica: Amarsi un po’ di Gianmarco Maggio
Mi chiama alle tre e un quarto per chiedermi se sono ancora sveglio. Ci siamo separati un’ora fa, io sono tornato a casa mia e lei a casa sua, dopo essere stati insieme a bere nei soliti due locali che frequentiamo. Rispondo di sì, che sto quasi per addormentarmi di fronte all’ultima puntata della prima stagione di una nuova serie, ma che sono ancora sveglio. Dice che non vuole disturbarmi, ma che ha voglia di rivedermi; stropiccio gli occhi e le rispondo che domani non ho niente di meglio da fare, ci possiamo incontrare a qualsiasi ora, e aspetto di sentire la sua voce che mi dia conferma. Non risponde. Insisto, le chiedo se per caso vuole vedermi adesso, e lei assente subito, fa mmh mmh, ma mi rassicura: non devo preoccuparmi, non è successo niente, semplicemente non riesce a prendere sonno, forse è per via dell’alcol, ma giura di non sentirsi ubriaca.
Esco in tuta e faccio un breve tratto di strada a piedi nella calma irreale in cui si immergono i viali di notte. Passo sotto al pannello illuminato di rosso della Coop, attraverso il centro e ci incontriamo al ghetto. Ha addosso un trench pesante con il collo in pelliccia sintetica, i pantaloni turchese del pigiama in pile con i grumi di tessuto, le scarpe da ginnastica. Una volta erano bianche; ricordo il giorno in cui le ha comprate, eravamo insieme. Mi chiede se mi rendo conto che in questo punto hanno ucciso Biagi. Sei proiettili, sospira, e fa il numero con le mani: sei colpi. Ne abbiamo già parlato, penso, prima parlavamo sempre di fatti del genere, storie degne di Blu Notte o di Chi l’ha visto, significa che lo ha dimenticato. Quel giorno ero a casa di mia nonna, seduto in salotto, le dico, non so perché lo ricordi così bene, subito dopo l’annuncio passò un’ambulanza a sirene spiegate da sotto casa e mi sembrò che i due fatti fossero collegati; ai tempi pensavo che tutto quello che trasmettevano al telegiornale fosse collegato in qualche modo agli eventi della mia vita, capii dopo che in realtà quasi niente poi lo era. Anche io ero da mia nonna, sorride, ho stampato ancora in testa l’annuncio di Emilio Fede al telegiornale. Mi prende per il braccio e mi spinge a camminare.
Le notti passate in una delle vie strette e silenziose del ghetto, io e lei incollati in un angolo, il piscio sui muri e la mano di Miriam disegnata sulle facciate degli edifici, erano state la cosa più vicina al concetto di una felicità microscopica, personale e da discount per classi medie prive di coscienza che mi ero costruito nel tempo, pensando di aver raggiunto abbastanza per meritarmela – gli studi conclusi in tempo, l’impegno e le aspirazioni obbligate, l’emancipazione fisiologica dai miei valori di provenienza – prima che insieme la frantumassimo per reazione. O, per meglio dire, che io la frantumassi per reazione mentre lei, lei non lo so per cosa, me lo sono chiesto più volte e non ho mai trovato risposta. C’è stato un passato in cui percorrevamo sempre queste strade al buio, adesso è diventata una novità. Le dico che ho freddo, che sarà un inverno lungo e che non mi sento pronto a starci dietro; a New York, la serie è ambientata lì, è estate o comunque i personaggi indossano tutti le magliette a maniche corte e fa caldo. Era estate anche l’ultima volta, penso, ma me lo tengo per me. Mi risponde che vorrebbe comprare un giradischi, e mi chiede se conosco un negozio in zona, così possiamo ascoltarlo assieme il sabato pomeriggio dopo pranzo, da giovane coppia adulta quale ormai siamo: promette che comprerà tutta la discografia degli Oasis solo per me. Dico di sì, solo che non ricordo il nome della via, e continuo a camminare.
Non troviamo locali aperti e ci costringiamo a vagare fianco a fianco nel gelo. Incrociamo un gruppo di studenti al primo anno, cantano in coro e prendono a calci un distributore automatico, sono tutti belli, o così mi sembrano. Lei balbetta timidamente che cose come questa, tipo vedersi nel cuore della notte senza motivo, non le fa per recuperare il tempo perso, anche se ci pensa ogni giorno, ma in fondo dice di avere capito che le relazioni non sono una formula matematica e che le cose vanno come vanno. È calata la nebbia sotto i portici e in fondo alle strade. Un camion della spazzatura ci passa a fianco, scende un uomo vestito d’arancione che ci augura la buona notte. Le dico che sono d’accordo, e almeno a parole devo esserlo; non ce lo siamo detti quando tutto è ricominciato ma non è che poi posso permettermi di pensare diversamente, considerato tutto. L’uomo risale sul camion e noi passiamo di fronte al nostro bar ormai chiuso e mi ricordo di una mattina assieme, anni fa, lo spritz a colazione e le chiacchiere superflue e inconcludenti con sconosciuti ubriachi che non avremmo mai più rivisto. Abbasso lo sguardo per cercare un cenno di comprensione nel suo, non pretendo alcuna illuminazione e mi farei bastare qualsiasi cosa, soprattutto una bugia consolatoria, ma non trovo niente, non incontro nemmeno per un attimo i suoi occhi, chissà se sta pensando a quello che ci siamo appena detti.
Mi porta a San Domenico, nel retro della piazza, e lì ci sediamo a parlare su una panchina, la colonna con la Madonna a qualche metro da noi a sorvegliarci. Mi racconta della tesi, che non la preoccupa più come una volta, ti ricordi come stavo al solo pensiero. Sa, e questo mi comunica e mi sembrano delle scuse che mai ho preteso, che sarà solo un rito di passaggio, una tappa necessaria, prima che cominci tutto il resto; e adesso è questo a preoccuparla, il vago e indecifrabile resto. Abbozzo empatia, fingo di saperne qualcosa in più di lei, e le propongo di andare da qualche parte in treno il weekend dopo le feste. Le dico che ogni tanto mi capita di pensare spesso alle sue orecchie da elfo e alle sue cosce nude. Mi sorride senza imbarazzo e mi dice che ora posso averle quando voglio, mani e cosce e tutto quanto, sono io a scegliere. Forse alla fine sta tutto nel modo in cui mi dice ora. Ci baciamo piano, quasi senza lingua, e i nostri aliti si mischiano nell’aria fredda. Il suo sa di sonno perso, gin, bocca impastata; il mio non ne sono sicuro ma credo di buchi in pancia e dentifricio, mi sono lavato i denti poco fa, convinto che sarei andato a dormire.
Riprendiamo a muoverci per non morire assiderati. Sulla linea dell’orizzonte si scorgono i primi bagliori di luce e lei, tra le bancarelle di Natale chiuse, mi dice che tornerà dai suoi domani ma che rimarrà lo stretto necessario per non deludere parenti e amici d’infanzia. Mi chiede se ho voglia di andare insieme a una festa a Capodanno e rispondo che mi piacerebbe e che dovrei essere libero, anche se non sono il tipo da feste e anche se ripeto sempre frasi del genere come se fosse una colpa.
Torniamo sul viale assieme. Gruppi di donne straniere con le sporte piene di prodotti e disinfettanti per i sanitari montano sui primi bus del mattino, dirette verso le villette sui colli dove fanno le pulizie. Prendiamo due strade diverse, io e lei, mi saluta con un bacio sulle labbra e mi sfiora la mano. Mi dà appuntamento alla settimana prossima; mentre si allontana di spalle fa un saltino in cui leggo gioia e liberazione insieme. Anche io provo lo stesso senso di liberazione, non di gioia, quando mi trovo da solo davanti al portone di casa, le chiavi in una mano e il muco gelato sulle narici, e penso alle volte in cui ci siamo fatti del male, al fatto che lo si fa volutamente solo alle persone che si amano davvero perché è come farlo a sé stessi, al fatto che non succederà più. Mi rendo conto che è finita e mi sento come liberato da un peso: ora bisogna capire come dirglielo, ma a questo ci penserò domani.
Gianmarco Maggio