Il racconto del mese: Le avventure di Eugenia Disturbata di Giulio Iovine

 Il racconto del mese: Le avventure di Eugenia Disturbata di Giulio Iovine

Illustrazione di Francesco Ferraro

Non c’era nulla che Eugenia amasse più del silenzio. Lo cercava dovunque andasse, qualunque cosa facesse. Con gli anni aveva imparato a centellinarsi quel godimento, a rimandarlo se occorreva e a nasconderlo a chi le stava vicino.

Quella sera d’estate era sola in casa. Lenta, ma sicura, camminò fino alla grande finestra del bagno. Lì, rannicchiata in un angolo, scrutò il cielo macchiato qui e là da qualche nuvola. Abbracciata alle sue ginocchia, dalla finestra aperta guardava la magnolia del suo giardino. I fiori bianchi velavano pezzi di nero e di stelle. Dalla città veniva uno sbadiglio metallico. Un fruscio accompagnava le fronde della magnolia che ondeggiavano senza peso nell’aria tersa; e questo era tutto. Il nulla sorrideva a Eugenia e lei gli rispondeva, come una neonata, senza stare a pensarci troppo. Si scopriva a ondeggiare, con il busto raggomitolato contro la lavatrice, allo stesso ritmo delle foglie, senza regola, con brevi scosse.

Mi pare il momento di andare a letto, pensò.
Nella sua cucina si accese una luce rossa. Si vedeva benissimo anche da lì.

Non stasera, pensò. Si alzò di scatto, si buttò addosso qualche vestito, ma non trovò il camice. Lo sparafuoco, anziché essere nascosto come da regolamento, giaceva accanto alla porta d’ingresso; era l’unica spina libera della casa per attaccare il filo, ed Eugenia era riuscita a convincere sua sorella Matilde che si trattava solo di un aspirapolvere. Lo afferrò, riattraversò casa sua correndo, si chiuse nella sua camera da letto, si infilò nell’armadio vuoto e premette il pulsante. Un potente risucchio, seguito dal guizzo di una caldaia vibrante, la scaraventò chissà dove sottoterra, e le porte dell’armadio si riaprirono su un laboratorio che era ancora più buio di casa sua. Ma anche lì sapeva orientarsi benissimo a memoria.

Apprezzò il fatto che le sue colleghe non fossero nei loro piccoli uffici; il silenzio era rotto solo dai suoi tacchi. Raggiunse il suo ufficio e accese la luce. Tutto era come al solito, la donna delle pulizie era passata il giorno prima. Un alambicco borbottava sulla sua scrivania sopra un becco di Bunsen su cui c’era scritto non spegnere, ed Eugenia si concesse tre secondi per guardare la soluzione che stava sviluppando, e che sperava di non dover mai usare. I suoi appunti erano stati riordinati per l’ennesima volta in una carpetta di plastica col suo nome; sopra la carpetta c’era il suo cellulare, con novantadue messaggi non letti su Whatsapp, tra cui uno – vocale – di nemmeno cinque minuti prima, da parte del suo capo: “Ciao Eugenia, c’è qualcosa a Sud, nella periferia. Non abbiamo capito cosa, ma pensiamo sia venuto da Fuori, e non deve oltrepassare il canale meridionale, o arriverà nei quartieri abitati. Pensaci tu. La macchina è già sulla piattaforma, ci ho stipato dentro i tuoi aggeggi. So che ci sei affezionata, ma stavolta non portarti a casa lo sparafuoco dopo la missione. Non è rispettoso nei confronti dell’Intendenza. Ricorda di fare rapporto domani, ciao.”.

Come dovette sentirsi sola Eugenia dopo quelle poche righe, il lettore non potrà capirlo subito; gli servirà di conoscerla meglio, per cogliere certi sottintesi. I vestiti le si erano incollati addosso per il caldo: se li tolse e, dopo averli buttati sulla sedia, andò nel suo bagno personale, si ficcò sotto un getto d’acqua, si lavò, si asciugò convulsamente. Poi, inforcato il camice da lavoro, corse nuovamente verso il corridoio principale. Una scritta sul muro, che Eugenia non vedeva ma che conosceva benissimo, indicava, davanti a lei, le piattaforme d’uscita. Si ritrovò in un hangar.  Accese la luce. La sua macchina, una 500 L del 1975 color dell’oceano con le ruote infangate e un’ammaccatura sul bagagliaio, se ne stava addossata al muro sopra una piattaforma mobile. Eugenia si fiondò in macchina, buttò lo sparafuoco sul sedile posteriore e tirò la leva dietro al freno a mano. La luce dell’hangar si spense, la macchina, sollevata dalla piattaforma, si innalzò rapidamente. Ebbe appena il tempo di mettersi la cintura, ed ecco che era all’aperto, di nuovo, in uno spiazzo erboso circondato da edifici. Davanti a lei, la superstrada di Lungam.

Accese il motore e pigiò il pedale con ansia e rabbia; come un proiettile la sua auto partì e inforcò la superstrada. Gli edifici le saettavano dietro, le curve la facevano ogni volta sbandare. Eugenia non aveva un rapporto sereno con i freni. Non sapeva esattamente in che parte della periferia meridionale doveva recarsi, ma una luce scarlatta, che lampeggiava in lontananza al di là di una schiera di condomini, le fece da guida. Puntò il volante verso il segnale luminoso e accelerò. Non c’era nessuno in giro. Dio, la calma solenne di questa nottata, si permise di pensare Eugenia. Solo io scorrazzo per strada con questo catorcio a snidare – snidare chissà che cosa.

La luce veniva da un bosco, una di quelle piccole foreste che sorgevano a ridosso dei campi coltivati e delle fattorie che costellavano la periferia della città. Il canale meridionale, non troppo distante, Eugenia se l’era già lasciato alle spalle da un pezzo. Andava troppo in fretta con la macchina. Quando apparve il bosco, la luce rossa si spense d’un tratto e tirò i freni, facendo fare alla macchina una giravolta e andando a sbattere contro un palo, che venne giù accartocciato come un ramo. Proprio nell’erba si era andata a fermare, pensò Eugenia, che uscendo dalla macchina sentì l’odore di piante bruciate dall’attrito. Per prudenza lasciò lo sparafuoco in macchina – guai mai che qualcuno lo vedesse.

Sul limitare del bosco, tre ragazzini camminavano con calma uno dietro l’altro sul marciapiede, parlando a voce alta. Ma guarda questi qui, pensò Eugenia inarcando un sopracciglio. Mi sembra di rivedermi coi miei amici al liceo. Appena puoi, subito in periferia, per vedere se becchi qualche scarafaggio bipede, o un anaconda trasparente. Quanto eravamo cretini. Ora mi toccherà spiegare a questi quattro che – ehi, aspetta. Erano tre, il quarto da dove sbuca? Eugenia pensò questo nello stesso momento in cui il quarto ragazzino, o quello che era, svanì dalla strada e dal suo campo visivo.

I tre svoltarono dietro un cascinale e lei li perse di vista. Una serie di tonfi e di rami spezzati veniva da dentro la foresta. Cambia forma, pensò Eugenia. Pericolosissimo. Ogni due o tre secondi, dall’intrico dei rami e dei tronchi, come il battito del cuore di una creatura morente, un debole lampo scarlatto appariva e spariva. I lampioni erano troppo lontani ed Eugenia, da lì dov’era, non poteva distinguere nulla; accendere i fari della macchina era come dire ehi, sono qui, vieni a sbudellarmi. Si sforzò di pensare, aggrappandosi alla portiera aperta della macchina – e senza farci caso, si mise dietro di lei, come a nascondersi.

Va bene, pensò – cambia forma. Ma appena mi ha visto è scappato. È nervoso. Sa che lo sto braccando. E non controlla la sua radioattività – un rimedio casalingo andrà bene. Diede un occhio ai suoi aggeggi stipati nei sedili posteriori dal Dr Hawkins. Un sonnifero, decise. Un sonnifero a sfera. Controllò che le sfere di sonnifero fossero tutte al loro posto, come uova nella loro confezione di plastica. Il fucile chimico era appoggiato al sedile. Fece per chinarsi e raccoglierlo, e solo allora le venne da pensare, Ehi, ma la luce rossa? Non c’è più? Cos’è questa cosa che striscia davanti al cofano? Ma che fa, respira? E con questo pensiero la creatura le fu addosso.

Ma le era sfuggita la portiera. Andò a sbatterci contro e le sue mascelle si chiusero sulle lamiere, spaccando il finestrino che le esplose in bocca. Eugenia era rotolata per terra dallo spavento, ma restò attaccata al sedile anteriore, e sbatté la testa contro il cerchione della ruota posteriore. Il rosso allagò il suo campo visivo. Ma non per la botta. Nel dolore folle di ritrovarsi dei vetri ficcati nelle gengive, la creatura non controllava davvero più la sua radioattività. Eugenia dal canto suo non ci vedeva come avrebbe voluto. La mano sinistra cercò affannosamente gli occhiali, nell’erba intorno. E mentre li rinforcava, la mano destra, attaccata alla macchina, tastò sotto il sedile e sentì il metallo dello sparafuoco. , pensò Eugenia. Lo afferrò, si rimise in piedi, imbracciò l’arma – un serbatoio da appendere al braccio e una lunga e grossa canna con un interruttore sull’estremità, che appoggiò sulla portiera, per mirare.

Eccolo là, pensò mentre mirava.

La creatura lampeggiava come se dentro avesse avuto una lampada in cortocircuito. Distinguere dove finisse la coda, dove cominciasse il collo, e se i muscoli delle gambe fossero davvero così grossi, e se davvero quelli erano i denti, fece stare Eugenia immobile per qualche secondo. Peggio per te che te ne sei uscito dalle tue foreste, disse senza quasi muovere la bocca. In quell’istante la creatura si alzava, dominava il dolore, sputava il sangue, apriva la bocca, abbassava la coda e si stirava sulle gambe, e come una torre coprì Eugenia di onde scarlatte, di sangue e luce, di luce e sangue, e la fissò, con un occhio tondo, nero, grosso come un brillante, inconsapevole – ma no, lo sa che è la fine, pensò Eugenia, e premette l’interruttore.

Lo sparafuoco era una di quelle cose che piacevano solo a lei. Faceva scena. Il flusso disgregatore, vermiglio di radiazioni – come sangue che schizza fuori da un’arteria – per cinque secondi cacciò via la notte. Un boato, un ruggito, e poi, a parte per l’erba in fiamme qui e lì, Eugenia riprese possesso del silenzio.

Nei due minuti che impiegò per riabituare gli occhi all’oscurità, il cadavere, come previsto, non si mosse. Questo era nei paraggi da un bel po’ di tempo, osservò Eugenia sistemandosi gli occhiali che per il sudore le cadevano sul naso. Aveva l’aria di conoscere bene la zona. Chissà quanta gente ha ucciso prima che il Dr Hawkins – già, il Dr Hawkins. Non so proprio cosa scrivere nel rapporto. Ma vediamo cosa è rimasto del cadavere. Eugenia si avvicinò, a sparafuoco puntato. A parte qualche fiammella, erano rimasti dei pezzi di cranio, ridotto a ossa – e i denti, quaranta lunghi denti. Poggiò lo sparafuoco, andò a prendere una busta asettica, mise dentro tutti i resti – le ossa le caddero di mano con un grido – brucia! – sono così stanca che ho scordato con cosa l’ho ucciso, pensò, e stavolta dall’occhio sinistro le scese una lacrima, mentre, in ginocchio, si teneva il palmo della mano ustionata.

Lentamente, con l’altra mano e un guanto, mise tutti i resti nella busta, la sistemò in macchina, rimise al suo posto lo sparafuoco sotto il sedile, e si guardò intorno. Le luci alle finestre delle fattorie erano spente, nessuno era in giro. Il vento aveva smesso di soffiare sulla foresta e i lampioni calavano lentamente di intensità. Eugenia tremò al pensiero di cosa avrebbe visto se avesse preso la macchina e fosse corsa sulle colline – l’orizzonte che da nero mutava in blu. Non voleva, ma un po’ lo voleva, perché con lei si era sempre incerti su cosa volesse o non volesse. Se accendo il motore, chiudo la portiera, prendo la Lungam – pensava – che c’è che non va? Risalgo il colle e – ma cosa vado a pensare. Si rimise in macchina, provò a chiudere la portiera fracassata – la tenne vicina alla macchina col piede sinistro, accese il motore e partì sbandando.

Qualcuno, chissà perché, girava nel parco accanto alla Lungam. Ma non fecero caso alla macchina che frenava roteando sullo spiazzo erboso vicino all’altalena, e che sprofondava nel sottosuolo come su una piattaforma. Eugenia si sistemò per l’ennesima volta gli occhiali che scivolavano. Ho bisogno di una doccia e di star ferma un minuto, pensò. Il finestrino lo riparerò appena posso. Anzi no, lo riparano loro, mica è mia questa macchina. Il rapporto domani, tanto non lavoro e ho tempo. Intanto, la cosa fondamentale. E scrisse a Hawkins su Whatsapp: fatto.

Non era ancora l’alba quando la dottoressa Eugenia Disturbata uscì dall’armadio-ascensore e si ritrovò nella sua stanza. Perché mi ostino a mettere i tacchi quando sono in missione? Si domandava mentre si massaggiava la caviglia destra e notava che il tacco dell’altro piede era ormai lì lì per rompersi. Si accasciò sul divano, esausta, e prese a passarsi sul palmo il lenitivo per le ustioni che aveva in ufficio. Tutta la paura della nottata tornò fuori, e mentre Eugenia pensava alla spesa dell’indomani o al fatto che aveva molto sonno, cominciò a piangere senza rimedio, a grandi sorsate di aria.

Lo sparafuoco giaceva in un angolo. Non era stato messo al suo posto. Ma Eugenia non poté farci caso più di tanto, perché quando arrivò l’alba, dormiva.

Giulio Iovine

Giulio Iovine  è nato a Bologna il 10/07/1987. Di lavoro fa il ricercatore e studia manoscritti antichi. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca – tuttora in corso – a Napoli. Ha da sempre il sogno di scrivere.

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