Il racconto del mercoledì: Ponte Colossus di Matteo Consiglio
Davanti a me si spalanca il baratro.
Facendo capolino al di sopra della ringhiera, mi rendo conto di quale altezza vertiginosa siano i centocinquantadue metri che mi separano dal greto del torrente sottostante. È sufficiente sporgersi qualche istante perché il desiderio di lanciarsi da qui venga meno in chiunque, e io, forse, non sono così determinato da trovare il coraggio di farlo. Per questo mi viene in mente il Golden Gate. Il ponte dei suicidi. Mi chiedo come si possa trovare la determinazione a lanciarsi dalla sua rimarchevole altezza di settanta metri, sapendo di poter sopravvivere all’impatto con l’acqua, e trovarsi a lottare istintivamente per una vita che si era deciso di abbandonare, per affrontare poi una morte che probabilmente oscillerebbe lenta fra agonia e terrore. Un ponte come questo, invece, che nell’impatto col suolo non ammette possibilità di sopravvivenza, sarebbe una scelta molto più assennata per la propria dipartita.
Lo chiamano Colossus, ma il suo vero nome sarebbe ponte della Pistolesa.
Sono qui sul ponte della Pistolesa perché Isabella mi ha lasciato.
Sono qui sul ponte della Pistolesa per liberarmi del tormento di queste notti in cui riesco a dormire sonni agitati solo quando non posso più reggere il peso dell’insonnia, per svegliarmi poco dopo, senza riuscire a fare un glomere di pensieri coerenti da cui trarre una motivazione valida per affrontare la giornata.
Sono qui sul ponte della Pistolesa, in procinto di salire sulla ringhiera e lasciare che il vento mi sferzi il viso per darmi la sua benedizione, mentre il mio cuore grida folle il suo dissenso dibattendosi ritmicamente nel petto come un primate in gabbia; dopodiché, per un istante in cui trovo il coraggio di alzare lo sguardo, mi si para davanti, incorniciata da massicci antichi come la paura, la vallata: un fotogramma della storia geologica della terra che mi comunica tutta la caducità dell’esistenza umana e la placida serenità che mi serve per ricambiare l’abbraccio gentile della gravità. Il cuore non lo sento più.
9,81 m/sec2. L’accelerazione di gravità mi trascina a 50km/h dopo 10 metri e mi verrebbe da pensare ai 70km/h, che è la velocità che si raggiunge dopo essere caduti per 20 metri, ma in quel frangente l’unica cosa che mi viene da fare è gridare senza alcuna possibilità di trattenermi, perché sto precipitando nel vuoto all’impressionante velocità di 110km/h quando comincio a sentire la tensione dell’elastico attaccato ai miei piedi che rallenta la mia caduta fino ad arrestarla, per poi ritrarsi e riportarmi a un’altezza che non sono in grado di quantificare, ma dalla quale precipito un’altra volta nel baratro gridando con la poca aria che ero riuscito a inspirare salendo. Vengo risollevato e provo la sensazione di cadere almeno un’altra volta prima che il movimento verticale s’arresti, lasciandomi là, sospeso. Ad almeno ottanta metri da terra, appeso a un elastico come un ragno a un filo.
Non mi sono mai sentito così vivo.
Matteo Consiglio