Il racconto del mercoledì: L’Essere precario di Veronica Nucci

 Il racconto del mercoledì: L’Essere precario di Veronica Nucci

Illustrazione di Francesca Galli

Mi siedo cauta, con la paura che un movimento brusco del mio corpo possa provocare reazioni inaspettate nell’interlocutore di fronte a me.

Stesso copione, ripetuto a distanza di mesi anche nei miei incubi più ricorrenti.

Lui mi guarda negli occhi senza esitazioni, sa che può permetterselo. Io, invece, sono insicura, i miei occhi vibrano rapidi e timorosi passando dal curriculum tra le sue dita alle mie mani che si intrecciano maldestre.

Inizia a parlare, le solite domande di rito, mi racconti le sue esperienze lavorative, dove si vede tra cinque anni.

Vorrei rispondere la verità, ammettere di non avere il coraggio di cambiare una situazione ormai fin troppo diffusa che non fa eccezione neanche per me.

Invece mi sforzo di visualizzarmi da qualche parte, eppure non posso fare a meno di pensarmi ancora così tra cinque anni: seduta dalla parte sbagliata di una scrivania in ciliegio, accecata dalla luce sfolgorante di un sole italiano che spunta da una grande finestra alle spalle dell’assistente di turno, intenta a rispondere alle domande preimpostate, alle quali lui non presta attenzione ma che continua imperterrito, come una macchina, a pormi.

Hanno bloccato in loop la mia vita a un solo momento, questo, come in un girone infernale che si ripete senza sosta. Devo espiare una colpa che non sento di aver commesso, anche se questo non significa che non la meriti.

Improvvisamente sento una morsa alla gola. Stanotte ho sognato di galleggiare in una materia densa, il mio respiro era affannato e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a tirare fuori la testa per espirare. I miei arti erano paralizzati e non avevo altra scelta che lasciarmi sopraffare.

Eccomi di nuovo qua, seduta scomodamente a vendere le mie capacità. Ancora una volta lui non ascolta, nessuno ascolta. Siamo troppi a parlare, a raccontare vite tutte uguali o tutte diverse. C’è troppa poesia nelle nostre storie. Non si fanno i soldi con le parole, i soldi si fanno con i numeri, con le percentuali, con le statistiche. Io non so contare, non l’ho mai saputo fare e ho sempre invidiato chi aveva questa attitudine. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte mi hanno detto no, grazie, serve chi sa contare qui, dei sognatori non ce ne facciamo niente. Otto, nove, dieci volte mi hanno detto sì senza guardarmi negli occhi, resta con noi qualche mese, il tempo di risucchiare la tua energia, poi mi hanno messo alla porta.

Sottomissione e rinuncia, comprano la mia vita e la pagano con il veleno rapido e letale dell’incertezza, un veleno che il corpo non può smaltire con altrettanta velocità.

Annuisco come un robot alle sue parole, accetto le stesse condizioni di sempre, anche se lui non le ha neanche elencate. Io le conosco già. E lui questo lo sa.

Accetto anche stavolta pochi mesi di speranze illusorie, nell’attesa di un giorno del giudizio. Rimango con una sola sicurezza: la minaccia costante della precarietà che di notte mi avvolge in quella materia densa senza lasciarmi scampo.

Veronica Nucci

 

Blam

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