Il racconto del mercoledì: La zecca di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco
«Si spogli.»
Clotilde sfoggia un completino intimo di pizzo nero, che non riesce a contenere la carne flaccida dei glutei da ottantenne. Si sdraia a bocconi sul lettino in attesa che inizi. Le copro i piedi dai talloni callosi e dagli alluci valghi, i polpacci con la pelle lattescente infarcita da vene grigiastre, le cosce molli increspate dalla cellulite. Sgancio il reggiseno, la pelle stagionata sprigiona un profumo di crema idratante al patchouli che mi inebria: da quella volta in cui le dissi che amavo le essenze calde orientali, non usa più intrugli dolciastri.
Prima che le dita stabiliscano il contatto, da una boccetta faccio colare sulla schiena linee di unguento alla lavanda. Clotilde conosce bene questi preliminari: una foglia carezzata dalla brezza.
Inizio a stanare i punti contratti e dolenti, la carne cede come pasta per pane, le mani scivolano, pizzicano, stringono, premono, afferrano, impastano. Dopo poco la stanza è satura di vapori di lavanda, patchouli e delle nenie yogiche di Deva Premal. Il respiro della donna si fa più profondo: gode a essere toccata, me lo ha confessato una volta, in modo velato.
Nel mio corpo scorrono brividi, eccitato continuo a lavorare la carne fino a quando non raggiungeremo la beatitudine.
Alla fine del trattamento Clotilde apre gli occhi beata. Prima di uscire lascia una lauta mancia, poi, rinvigorita, si avvia fuori dallo studio per andare a pagare la seduta.
Mi lavo le mani e apro la finestra per far cambiare l’aria.
Bussa il nuovo cliente, apro e ho davanti un tipo massiccio e stempiato, emana profumo all’oud. Raccolgo l’anamnesi per capire le zone da lavorare, poi lo faccio spogliare. È pieno di tatuaggi, le mie dita sono attratte da tutte quelle cellule intrise di colore, fremono per andare a toccarle.
Ha la pelle grassa, uso olio di nocciola al limone. Iniziano le note di Circadian, le mie mani cercano di prendere confidenza con questa carne dura. Tocco alcuni punti trigger sulla schiena e la corazza cade: finalmente è in mio possesso. Dai dermatoglifi dei polpastrelli mi arriva la consistenza composita di quel tappeto dipinto: mi piace. Anche lui gradisce molto, lo sento dal respiro. La macchia rada di peli in prossimità dell’osso sacro mi ricorda mio padre, sento irrigidirmi e stringo la presa; un mugolio ovattato del paziente e torno a ciò che stavo facendo: nutrirmi. Attraverso le mani li libero dalle loro afflizioni e scateno un profluvio di endorfine per farli arrivare al godimento. A quel punto sarò gonfio di vita e loro saranno in mio possesso.
Ho finito. Adesso l’uomo ha un aspetto più solare. È visibilmente eccitato, apre gli occhi, sorride e ammicca. Dalla mia espressione capisce che qui non è quel tipo di posto. Si riveste ed esce. Probabilmente ritornerà: è stato bene.
Mi lavo le mani e apro la finestra per far cambiare l’aria in attesa della prossima vittima di questa giornata lavorativa.
Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco