Il racconto del mercoledì: La vetta invisibile di Carlo Rossi
Più macchine, meno spazio. Più gente che striscia tra gli attrezzi con un’idrosalina in mano e una chiacchiera in punta di lingua. Nuovi adepti compaiono a primavera; desiderano una nuova forma fisica in pochi allenamenti. Consigli di sedicenti personal trainer su youtube e il mantra del parafarmacista, il loro credo. Tipi strani, devoti di stregoni che straparlano del niente. Lei era nuova e sembrava parte di quel popolo.
Io sto nella minoranza che in palestra tace e suda.
Avevo rilasciato il bilanciere. Le fibre congestionate del petto premevano contro la T-shirt. Le in-ear m’iniettavano odio metal in sette quarti. Rifiatavo e non avevo avvertito la sua presenza. Il mio sguardo basso aveva raccolto le sue Metcon 4, poi era risalito lungo i legging fino alla canotta nera spruzzata di rosa: una seconda pelle di poliestere che glorificava curve toniche. Il suo viso: un filo di trucco e una cicatrice sotto l’arcata destra. Ovale perfetto e fronte alta sotto capelli bruni raccolti sulla nuca. L’incarnato roseo, quasi un’offesa qui al sud, e occhi dal colore cangiante.
Aveva detto qualcosa ma i miei timpani erano preda di tellurici pattern di batteria. Avevo visto le sue labbra danzare con grazia, ma non avevo potuto udire. Il suo sguardo era dentro il mio. Avevo accolto tutta quell’estasi in un solo momento. Era troppo. Mi ero difeso fingendo sofferenza fisica e pensiero assorto tra geometrie di acciaio e ritmi heavy.
«Scusa», aveva ripreso, dopo avermi visto smettere gli auricolari, «volevo solo sapere se avessi terminato». Chiunque, dalle mie parti, avrebbe sollecitato un “quante ne fai ancora?”.
Per sembrare ruvido – giusto per adeguare il mio esile ego alla stazza che lo imprigiona – le avevo mentito «finito», senza aggiungere altro, prevedendo una richiesta che avrebbe potuto offrire un “appresso”.
«Posso chiederti un aiuto?» aveva domandato con un sorriso. In palestra era raro un interrogativo così elegante. «Ok», avevo sputato infastidito pur di risultare coerente, ma il seguente «certo» mi era sfuggito così cortese da regalare alle fiamme la mia maschera. Con uno sguardo che sembrava aver svelato il bluff, lei aveva concluso «Faccio un cenno per lo stacco».
Il bench press non è per chi fa dell’ostentazione la propria cifra, richiede bilanciamento tra umiltà e convinzione. Nel bench press le braccia scaricano l’energia generata dai pettorali per sollevare il sovraccarico. Al partner spetta il compito di innalzare il bilanciere dai rack, in principio, e di riporlo in posizione di partenza, alla fine del set. Come nella vita, egli completa, aiuta, salva dalla disfatta. Evita che la fase critica schiacci cassa toracica e fiducia, incoraggia la fase di spinta a raggiungere la massima estensione: la vetta invisibile. Il partner segue l’atleta schienato che sfida la gravità e sbuffa sotto leve contrarie. Lo guarda da un angolo diametralmente opposto a quello ordinario. Più che il ritmo, aiuta a cercare l’armonia.
«Stacca, sono pronta!»
Lo ero anch’io.
Carlo Rossi