Il racconto del mercoledì: Ebefrenia di Chiara Morabito
«Varietà di schizofrenia propria dell’età giovanile e caratterizzata da dissociazione ideativa, apatia, indifferenza affettiva e rapida evoluzione verso un grave deterioramento delle funzioni psichiche.»
Il mondo è strano. Luccica e danza sotto il vorticare delle stelle, trema e respira sibilante, dilatando e contraendo il tempo a ogni fiato; Flavia lo osserva, e le sue mani non le appartengono più: si trasformano in grovigli intricati di ghirlande luminose, e pulsano asincrone col battito del suo cuore. Riesce ancora a scuoterle e ritornano a essere la sua pelle e il suo sangue ma Flavia sa che ormai sono state reclamate: ogni giorno è destinata a perdere un pezzo di sé.
Ha provato a spiegarlo alla mamma, ma le sfuggono via le parole nella corsa fra la mente e la lingua; non sa bene esattamente dove vengano perdute, a che punto svaniscano prima che la sua bocca si dischiuda: le sembra che si dissolvano nello spazio dietro agli occhi e restino incollate, oleose, in una strettoia inaccessibile del suo cranio. Non se ne preoccupa: ha provato a scavare, a cercarle, ma un minuto è sufficiente per farle dimenticare di averle dimenticate. I suoi pensieri rotolano e rimbalzano spensierati e scattanti, e Flavia si diverte a inseguirli come se fossero il Bianconiglio delle favole.
Il mondo è vacuo, ogni vita risucchiata in un vuoto ermetico, ogni suono ovattato e distante, sigillato dai contorni di un universo che non desidera parlare. Flavia lo osserva, e dentro di lei ogni cosa muore: i suoi organi si contorcono in un’ultima agonia silenziosa e periscono con una vertigine secca che le avviluppa l’addome e le rende il passo incerto. Non prova dolore, non ne ha paura: le emozioni scivolano sulla superficie che separa il suo corpo dal resto come acqua su vetro.
Flavia si sveglia di notte e conta gli infiniti punti che compongono tutto ciò che vede. Il numero non importa – a un certo punto le sembra sempre di non sapere più contare –, ma la esalta l’idea che ogni singola parte abbia un suo odore, un suo spazio, sia sospesa in una sostanza più leggera dell’aria, più invisibile, più impalpabile, manifesta a lei sola. Il mondo precipita continuamente, e la trascina con sé.
Flavia rientra da scuola. Le creature la aspettano composte e solenni, a gambe incrociate sul suo letto; parlano continuamente, un brusio incessante di cronache insensate: le raccontano di tutti i modi in cui Dio le parla attraverso i colori del soffitto, di come i granelli di polvere vortichino nella luce solo per lei, di come il fruscio del lapis sulla carta dei suoi quaderni componga la melodia dell’infinito. Flavia vorrebbe chiedere loro la cortesia di lasciarle ascoltare i propri pensieri, ma forse sono proprio le creature stesse a essere i suoi pensieri che rimbombano nell’esistenza, troppo ingombranti e vanitosi per rimanere rinchiusi nella sua mente.
Il mondo è acceso di bianco e azzurro e puzza così tanto di ammoniaca che le sembra di riuscire ad assaggiarne l’odore. Tutto è di nuovo caduto bruscamente al proprio posto, e i polsi di Flavia sono pesanti di catene di Aloperidolo che la inchiodano alla realtà.
Chiara Morabito