Il racconto del mercoledì: Bina di Elisabetta Romersi
Non poteva essere mia figlia, ma quando mi chiamava mamma la lasciavo fare. Nessuno mi aveva mai rivolto quella parola e non mi dispiaceva assecondarla. Chiedeva il suo bambolotto e quando lo vedeva squittiva di gioia. Momò, l’aveva chiamato. Nei giorni buoni ero la sua custode, in quelli cattivi la sua vigilante. Nelle notti inquiete restavo sveglia a controllare che non le venisse il ghiribizzo di uscire sul balcone. Le parlavo, le accarezzavo la testa, lei mi guardava coi suoi occhietti celesti mentre le asciugavo le lacrime col bavaglino. Aveva visto un’ombra, era passata nello specchio e si era nascosta dietro le tende. Controlliamo subito, eh, Binuccia? Sicuro che non c’è niente. Lei mi si aggrappava, implorava sul mio grembo. Mamma, non mi lasciare, non te ne andare. Il cuore di uccellino che palpitava attraverso la schiena e sotto la mia mano ferma. Aveva paura di tutto. Dei coltelli, della sirena di un’ambulanza, del temporale, della luna fuori dalla finestra. Sono qui, figlia mia, sussurravo mentre l’aiutavo a bere il latte con dentro le gocce, e pian piano il suo respiro rallentava. Se si calmava abbastanza, riusciva anche a dormire qualche ora. Allora reclinavo la poltrona di velluto e chiudevo gli occhi per sonnecchiare con lei quel tanto che mi fosse concesso.
Nei giorni ottimi mi chiamava col mio nome vero, era chiacchierona. La mettevo in carrozzina e andavamo al parco. Non so come facesse, perché non le toglievo un attimo gli occhi di dosso, ma quando tornavamo aveva le tasche piene di tesori: un sasso, delle foglie, il pezzetto di un giocattolo rotto. Una volta portò una gomma masticata e insistette perché la mettessimo in bella mostra sul piano della credenza con gli altri oggetti reperiti durante le nostre uscite passate. Nel pomeriggio spazzolavo a lungo i fili leggeri dei suoi capelli e li raccoglievo con uno di quei fermagli laccati di mille colori che avevo comprato per lei dai cinesi, oppure la intrattenevo leggendo. Andava bene qualsiasi libro perché quello che le arrivava era il suono della mia voce, e anche se la storia parlava di sangue e ammazzamenti, lei mi ascoltava sorridendo di una beatitudine che pareva incorruttibile.
Poi c’erano giorni che non erano né buoni né cattivi, ma solo faticosi. Quelli in cui non era collaborativa e io avevo poca pazienza. Bagnava il letto, sputava la pastina, era un continuo lavare, un continuo ricominciare, finché non arrivava la figlia a darmi il cambio.
Se n’è andata due giorni fa, nel sonno, mentre dormivo anch’io.
Mi resta una foto che mi ha regalato, lei in cappotto leggero sulla neve, la mano che protegge gli occhi dal sole a picco. Dietro, in bella grafia, c’è scritto, Arcangeli Bina, Roccaraso, 1941.
Elisabetta Romersi
1 Comment
veramente carino come racconto, complimenti!!