Il racconto del mercoledì: Bentornata Agnese di Giorgia Giuliano
I giorni non li tocchi, ma sanno di riso. Sembra colla, dice Buddha che non prega, che non conosce i sutra, che si chiama così per la testa pelata e i lobi appesi. Viviamo a Settecamini, frazione di Roma, Roma fa finta che non ci conosce, pare che siamo parenti illegittimi. Qui nei piatti gli ingredienti fanno famiglia: il guanciale con l’uovo, la pasta corta. È baldoria, è ricorrenza. Buddha non capisce che i chicchi si stringono uno all’altro per timidezza. Con gli occhi cerca verdure o del pollo che possa spronarli, dividerli, così ognuno se la cava da solo. Tu sai stare da solo?, gli domando. Intanto difendo il riso, gli do amido, dai bordi della ciotola lo spingo al centro, creo un vaso d’argilla.
È successo, penso. Dall’altra parte del mondo, Shiro è morto. È come se fosse morto alle mie spalle, ho ridotto su scala la distanza tra Settecamini e il Giappone da dove sono volata per tornare a qualcosa di più grezzo, di più rozzo, un’altra forma di vita che tutti si ostinano a cercare nello spazio. A Kyoto ci vivono i furbi, ho detto ai miei amici alla festa di Bentornata Agnese, ieri. Noi mangiamo riso in bianco se stiamo male e lì lo mangiano per stare bene.
Buddha è seduto a rastrellarlo. Io non voglio intristirlo con il mio dolore, condirgli il riso con l’amaro se già non riesce a mangiarlo. Lo increspa dando l’idea di un mare profondo, la forchetta ha l’acqua fino al collo. Buddha sta scavando dentro il mese scorso, senza saperlo scava una fossa per Shiro, il mio amore mortale. Diceva di voler essere un onigiri, per avere la sua stessa forza. Non me ne dovevo andare. Dovevo continuare a tenerlo stretto tra le mani, a compattarlo.
Riso, non esiste contrario più forte di pianto. Vorrei risolvere il dolore con le dita, come fa Buddha che, con le dita, raccoglie un chicco e non lo mangia, lo rifiuta, lo esilia su un fazzoletto, chiede mezze maniche alla carbonara, ma io ho scordato come si cucina a Roma. Uso soia e alghe.
I miei amici pensano che mi sono ammalata, che il Giappone mi ha ammalata, là dove si vive a lungo, e si vede che Buddha vuole dirmi che non è vero perché Shiro a vent’anni è morto. Shiro si è autodistrutto, camminava troppo, s’infradiciava nel completo blu. Il blu è un colore bugiardo, sembra elegante invece è assassino. Quando l’ho saputo mi è venuto freddo, ho girato la testa e la finestra era aperta. L’ho visto di nuovo, occupava tutto il cielo. Il blu è una condanna sopra la mia testa e, di sicuro, le nuvole sono macchie di sangue degli angeli.
Shiro è morto senza vestiti, libero e nudo sull’asfalto. Avrà fatto finta di tuffarsi nel fiume Kanzaki. Ci voleva andare, lo diceva a me e al suo capo, ma dei due solo io l’ascoltavo. Quell’uomo pretendeva senza sapere che Shiro non potesse andare più veloce di quanto già non andava. Dalla velocità si scappa solo in un modo, si frena di colpo.
Il tavolo trema dopo un pugno, Buddha mi guarda, è il mio colpo. Il vaso di argilla si è rotto.
Giorgia Giuliano
1 Comment
Un’atmosfera onirica che avvolge la crudezza della realtà, ma non può attenuarla.
Brava Giorgia