Il racconto del mercoledì: Arrivato di Eva Poggio
Un uomo sta appoggiato con le braccia alla finestra. È l’11 luglio e anche se è già tardi, fuori non è ancora buio. Dietro di lui la tele è accesa, c’è la Nazionale che gioca. Sono al quarantesimo, l’Inghilterra ha fatto un goal subito e poi più niente, non è la partita in cui sperava, ma va bene così, in finale l’Italia c’è arrivata.
L’uomo fuma e la cenere cade sulla terra di una pianta secca di cui non ricorda se era salvia o prezzemolo. È annoiato. Da quando è in pensione non riesce più a dormire. Lavorava in ospedale, faceva le pulizie di notte. Il suo corpo ha perso il ritmo del sonno. Trentuno anni sono passati da quando è arrivato in Germania. Arrivato. Dopo di lui nessuno è più arrivato, sono tutti partiti. Ragazzi che come lui avevano preso il posto per riempiere il buco in cui entri quando arrivi e ancora non sai nulla, sei appena arrivato. Arrivati e partiti. Chi in fretta, chi con calma. Partiti per altrove o forse tornati indietro. Lui è rimasto, è invecchiato. Quelli giovani intanto continuavano ad arrivare, ma stavano poco e già ripartivano, non invecchiavano mai. Ora è in pensione. Proprio lui che tutti chiamavano il ragazzo arrivato dalla “bella Italia”. Il ragazzo è in pensione. Arrivato alla pensione, arrivato ancora.
C’è un bambino che gioca nel cortile, si nasconde tra le bici poi esce veloce, punta l’indice e spara, si gira e scappa di nuovo. L’uomo lo osserva per un po’ infastidito. È indeciso se tornare dentro e chiudersi la finestra dietro o se cacciare un urlo e mandarlo a casa, non è ora di giocare. Il bambino non sta fermo, corre, spara, corre. Poi improvvisamente si blocca nascosto dietro le ruote di una Punto blu con il paraurti schiacciato e ridotto in una poltiglia di plastica e metallo arrugginito.
Alla tele il cronista sembra incitare la Nazionale, la invita a muoversi, manca poco alla fine del primo tempo. C’è un calcio di punizione per gli inglesi. L’uomo si gira, scorre lo sguardo sulla poltrona, sulla birra vuota per terra, sul tavolino con il sottobicchiere di sughero. Torna a seguire la partita per alcuni attimi. Mancano solo più di quattro minuti alla pausa: ultima possibilità di segnare, di vincere, di cambiare il flusso delle cose. Ultima possibilità di partire, andare, ritornare, muoversi, correre, segnare. La partita si movimenta, diventa veloce proprio adesso che è agli sgoccioli. Avessero solo giocato così tutto il tempo, pensa l’uomo, poi il fischio, fine, Ende, uno a zero per gli altri. L’uomo prende il telecomando e spegne, non crede nelle rivincite dei secondi tempi. Arrivati in finale, pensa, va bene così.
Fuori il bambino è sparito o forse è ancora nascosto pronto ad assalire un immaginario nemico. L’uomo pensa a sua figlia. Da quando non viene più a trovarlo ogni settimana sono morte le piante nei vasi. Pensa a suo nipote ancora troppo piccolo per vedere le partite, troppo tedesco poi per tifare l’Italia. Lui che non è mai arrivato ma che c’è sempre stato.
Eva Poggio