Il racconto del mercoledì: Amanti di Mario Greco
Succede un po’ a tutti gli amanti, prima o poi: uno dei due si stanca, si fa prendere dai sensi di colpa. Il mio amante, dopo aver fatto l’amore, si mette a fissare il soffitto. Non si accende la sigaretta, però, pur essendo un fumatore accanito. Resiste, bisogna dargliene atto. Ma fissa insistentemente il soffitto, e se appoggio la testa sul suo petto, non mi accarezza più come faceva prima, all’inizio della nostra storia.
Il soffitto di questa sua casetta in campagna dove veniamo a far l’amore è tutto cosparso di macchie di umidità. Ci si può vedere un po’ di tutto: volti umani, animali, isole, montagne. Il tetto è un colabrodo. Quando piove forte, le gocce penetrano giù e dobbiamo mettere qualche bacinella sotto. Anche il lenzuolo è bucato. Ogni tanto da qualcuno di questi buchi spunta fuori il mio alluce smaltato di rosso. «Guarda,» dico al mio amante, «somiglia a un fiore.»
«Tu sei pazza» fa lui. «Pazza.»
Mi dice sempre così, che sono pazza, anche se non faccio e non dico nulla di così strano. È un suo modo di dire, e io lo prendo come un complimento. «Perché non togliamo un po’ di erbacce e coltiviamo l’orto, piantiamo dei pomodori, per esempio, o delle melanzane?» gli chiedo, e lui risponde che è stanco, che è stanco di questa vita, è stanco di mentire, che è stanco di tutto.
Questa casetta puzza di muffa e di carogne. Ci entra di tutto. Topi, scarafaggi. Nel camino abbiamo trovato un nido di barbagianni. C’è sempre il timore che qualcuno venga a spiarci da queste finestre senza scuri e senza tende. Dobbiamo ricominciare a parlare, dobbiamo ridere un po’, raccontarci qualche barzelletta, pizzicarci il sedere, cantare, parlare dei nostri rispettivi figli, del loro futuro e del nostro, perché anche noi abbiamo ancora un futuro, o forse no? Gli dico che dobbiamo comprare delle altre lenzuola. E delle tende per le finestre, e dobbiamo tappare tutti quei buchi, rifare il tetto. Lui non risponde. Nemmeno se lo scuoto, è come morto. Dice che è ora di andar via, che è tardi. «Restiamo ancora un po’» gli dico io, «aspettiamo il tramonto.» Dice che sembro una ragazzina. Un altro complimento. Sgranocchio qualche noce. «Ne vuoi?» gli chiedo. Dice sempre di no, anche se gli piacciono tanto. «Guarda questo gheriglio, somiglia a un cervello.» Scuote la testa e poi si lascia sfuggire un mezzo sorriso. Si possono fare grandi cose con le noci, e anche con quei fichi là fuori, e con tutti quei piopparelli che crescono sui ceppi lungo il fiume. È la mia anima di cuoca mancata che spunta fuori. La maga dei fornelli che vorrebbe tanto preparare qualche piatto delizioso per lui. Ma non ci sono fornelli qui, non c’è il gas. C’è questa casetta, con questo letto, un camino intasato, una cassapanca, due o tre sedie, un tavolo, dei vecchi attrezzi agricoli buttati in un angolo. Fuori c’è il mondo. I campi, e più in là la città, dove tra non molto, come due estranei, faremo ritorno.
Mario Greco