Ci sono cose da cui neanche la ricchezza può proteggere: «Il gabbiano di Besnik» è il racconto di Valentina Scelsa
Il gabbiano volteggiava nel cielo con le lunghe ali spiegate, cerchi concentrici sempre più stretti, movimenti scattanti, non fluidi, i sussulti di un giocattolo con la batteria scarica. Ho inchiodato: senza alcun garrito l’uccello si è avventato sulla strada con le ali che si aprivano e chiudevano come piatti d’ottone nelle mani d’un percussionista lento, fuori tempo; con calma ha agguantato per la collottola un grosso topo di fogna che stava attraversando la strada a pochi metri dalla mia Smart; si è rialzato in volo, il volo di un colibrì perfettamente verticale, senza sforzo, quasi la preda fosse una leggera gallinella di mare. Ho guidato fino al ciglio della strada e mi sono fermato. Osservavo la scena quando il palmo di una mano mi si è parato davanti: palmo lurido, dai rilievi paffuti di fattezza infantile, ma grande, quanto il mio viso. È sbucato dal finestrino aperto, e si è messo tra me e la visione oramai alta nel cielo. Sul palmo non c’erano linee: né della vita, né dell’amore, né dell’intelligenza, a parte le rughe di sudiciume, era liscio. Ne ho scrutato il proprietario seguendo l’olezzo che aveva invaso l’abitacolo: un ragazzino cencioso, di undici dodici anni, uno zingarello. Stavo cercando qualche spiccio per ripartire il prima possibile quando una voce femminile e metallica mi ha bloccato: Soldi, io fame: non era umana, quella voce. Era la voce di Siri.
Senza guardarlo gli ho messo in mano qualche moneta e sono ripartito.
Quel giorno sono andato a comprare le sigarette sulla stessa strada. La storia di Besnik, così si chiamava quella specie di ragazzino, me l’ha raccontata il tabaccaio, un signore anziano con baffi da tricheco fissato con sistemi improbabili per vincere al lotto, non aveva mai vinto un euro, a cui lavorava tutto il tempo: taccuino e biro, grandi ragionamenti e una sfilza di numeri slabbrati perché gli tremava la mano, tremolii netti lunghi e marziali, non molleggiati come quelli che ci si aspetterebbe da un malato di Parkinson. Mi ha raccontato che il povero zingarello puzzolente non viveva in nessuna comunità, vagava per la zona in cerca di cibo per sé e il suo gabbiano, che allevava da quando era un pullo. Era un ragazzino strano questo Besnik, non c’era dubbio: gli aveva confidato che si sottoponeva a degli esperimenti in una qualche clinica segreta. Era riuscito a capire solo poche parole di quel suo italiano bastardo: gli somministravano sostanze da ingerire in cambio di qualche soldo. Qualcosa doveva essere andato storto sicuro, esperimenti o no, avevo sentito la sua voce? E gli occhi, avevo visto che occhi? Così neri da cancellare le pupille, vuoti, brrr, gli stessi occhi del gabbiano; l’avevo visto quel gigantesco gabbiano? E avevo visto come si muoveva lo zingaro?
No, non avevo visto lo zingaro muoversi e non lo volevo vedere. Non sono più andato a comprare le sigarette in quel posto.
Due anni dopo vivevo in un’altra casa, nello stesso quartiere signorile di Roma, Monteverde, ma nella zona opposta. La vita mi andava un gran bene, come broker ero riuscito a mettere su un bel gruzzolo. Amavo i soldi, erano il mio unico amore. Non mi sono mai posto questioni sul senso della vita, sull’aldilà, sull’anima, sul perché non mi fossi ancora innamorato: menate che facevano solo perdere tempo, e il tempo si sa cos’è.
Due anni dopo, dicevo, era una bella mattina di sole autunnale, avevo comprato il giornale e stavo per fare colazione al mio bar preferito. Il tavolino tondo di alluminio sotto il salice piangente che occupavo di solito era libero. Cappuccino fumante e cornetto alla crema pronti per la degustazione, «Il Sole 24 Ore» aperto sulle pagine delle quotazioni in borsa che di sicuro mi avrebbero fatto gongolare, fremevo dalla voglia di scoprire quanto avevo guadagnato. A rovinare l’idillio un gruppo di studenti che avevano fatto sega a scuola, dalle voci sguaiate, che si erano seduti al tavolino accanto al mio. Ciarlavano dell’ultima notizia che stava girando sui social, una fake a cui non avevo prestato la minima attenzione: il latte, la carne o le uova sarebbero stati alterati con innesti di cellule geneticamente modificate da alcune multinazionali, in accordo con lo Stato. Non ci vedevo nulla di nuovo e non era ancora ben chiaro a cosa portasse l’assunzione di questo cibo. I giovani barbari si dilettavano in ipotesi fantascientifiche che denotavano, devo ammetterlo, una certa capacità di immaginazione. Stavo ridacchiando al pensiero di queste idiozie quando una manona lurida e pelosa si è messa tra me e il giornale: dai qualcosa, io fame: quello che fino a un paio di anni fa era un ragazzino adesso era diventato un energumeno, e dimostrava almeno trent’anni, la tuta sporca tirata sulla sua pancia di beone. No, non poteva essere lui. Se non fosse stato per quella voce, e per quegli occhi, occhi vuoti, non avrei mai… Mi sono messo a cercare qualche moneta, lui è indietreggiato e non ho potuto fare a meno di notare che si muoveva a scatti, come un robot. Stavo per mettermi a ridere come faccio se sono nervoso, rido come un deficiente, quando ho sentito il fetore: è stato in quell’istante che ho capito che lui e il ragazzino erano lo stesso essere.
Gli ho allungato cinque euro, mi sono alzato, mi sono rimesso subito a sedere: le gambe non mi reggevano: un enorme gabbiano veniva verso di noi, muovendosi a scatti, sembrava puntare proprio me; il becco giallo che si apriva e chiudeva mostrando la lingua lunga rossa e guizzante, che gridava muta la sua fame. Ho chiuso gli occhi, quando li ho riaperti il gabbiano era appollaiato con i lunghi artigli sulla spalla dell’energumeno, pronto ad attaccare al minimo cenno del suo padrone: i suoi occhi, che mi fissavano, erano identici a quelli dello zingaro. Volevano qualcosa da me, e io non avevo idea di cosa fosse. I secondi passavano, i ragazzini si erano ammutoliti, fissavano me, l’energumeno e il gabbiano a bocca aperta. Sudavo come un maiale, mi sentivo proprio male. Il sangue era rifluito tutto verso il basso, avevo un masso nello stomaco; non riuscivo a respirare, filamenti scuri mi annebbiavano la vista; un’improvvisa debolezza, una vertigine, mi dava la certezza che presto sarei scivolato dalla sedia. Ero vicino al collasso quando un furgone bianco si è accostato alla strada, dietro al salice: quattro uomini in divisa bianca sono scesi e si sono avvicinati in silenzio. Besnik, il suo nome mi è tornato in mente col fragore di una bestemmia, Besnik e il suo lacchè pennuto erano di spalle, non si sono accorti di niente. Uno degli uomini in divisa, indice alla bocca, mi ha fatto segno di stare zitto, far finta di nulla: figuriamoci, come se avessi avuto la forza di fare qualsiasi cosa. A circa due metri un altro uomo in divisa ha tirato fuori da una tasca una pistola e gli ha sparato: una freccetta ha lacerato il collo di Besnik, un’altra il dorso del gabbiano: sono crollati a terra addormentati. I quattro se li sono caricati sul furgone e sgommando sono spariti dalla mia vista, con grande sollievo mio e dei teppistelli accanto a me.
Sono tornato a casa con un gran mal di testa, ho preso tre Halcion e ho dormito fino alla mattina seguente. Non ho visto mai più Besnik e la sua belva alata.
Non si è mai saputo se fosse stato il cibo, l’acqua o l’aria: tutti, uomini e animali, hanno iniziato a muoversi a scatti, scatti lineari e precisi, niente a che vedere col Parkinson. Fino a qualche mese fa c’era ancora chi parlava; poche parole, pronunciate con la voce di Siri ubriaca. Adesso non ne siamo capaci. Dalle mani sono sparite le linee della vita, dell’amore, dell’intelligenza. Passo il tempo a fissarmi i palmi, a guardare nello specchio i miei occhi senza pupille. Invecchio anni ogni giorno che passa. Non mi importa dei soldi, a nessuno importa di qualcosa.
Se un’anima è mai esistita, noi non l’abbiamo. Siamo vivi, siamo già tutti morti.
In cielo i gabbiani non volano più.
Valentina Scelsa