Ci sono giocattoli che abbiamo amato più di altri, e a volte per le motivazioni sbagliate: «Il G.I. Joe» è il racconto di Marco Gelli
L’ho visto tante volte alla tv, ci facevano la pubblicità con le esplosioni, le canzoni rock e compagnia bella. Ho chiesto a mamma se me lo comprava, e lei mi ha detto che ne ho già tanti a casa. Ma cosa ne sa lei, che questo è tutta un’altra cosa. C’ha le armi, un sacco di vestiti e gli posso mettere la faccia che voglio. E insomma, sono stato col muso per una settimana buona, non parlavo perché non voleva prendermelo e mi sembrava che lo faceva anche apposta.
«Ancora questa storia» diceva. «Dai su, smettiamola.»
Ma smettila tu!
Tutti gli altri giochi che ho mi facevano proprio schifo ed era tipo mille anni che non provavo più a giocarci. Così, quando quel sabato sono andato da papà, gli ho detto che mamma non me lo voleva comprare e allora lui mi ha dato d’un botto ventimila lire. Subito mi sono lanciato fino all’edicola perché sapevo che ce l’aveva. Era appeso a una colonnina assieme a tutti gli altri: cioè, bellissimo!, col sorriso fisso, le armi, i vestiti proprio da soldato. Ho provato a staccarlo, ma era troppo in alto e non ci arrivavo. Ho chiesto al signore dell’edicola se me lo prendeva.
«Ma ce li hai i soldi?» mi ha detto.
E io allora gli ho detto: «Sì sì, guarda!».
Ho preso due pezzi da diecimila dal portafogli della Juve e glieli ho dati. Lui si è messo a ridere, ha preso un paio di forbici ed è venuto dove ero io, ha fatto zac! ai laccetti, ha preso la scatola e me l’ha data.
E poi ha detto: «Cambia squadra».
Gli volevo dire una parolaccia di quelle brutte ma non l’ho fatto. Ho pagato, sono uscito dall’edicola e ho corso velocissimo fino a casa e lì, poi, ho fatto vedere a papà il G.I. Joe. Papà l’ha guardato e ha fatto una faccia buffa che però era anche un po’ strana. Sono andato in camera, ho aperto la scatola – c’era quell’odore di plastica fresca -, ho sciolto i laccetti e l’ho tirato fuori. L’ho chiamato solo Joe, perché era il primo nome che mi veniva; gli ho fatto fare qualche salto sul letto, ho detto che c’era la guerra e che doveva combattere per forza. Ho fatto finta che c’erano delle esplosioni come nella pubblicità e lui è corso a nascondersi dietro i cuscini. Gli ho dato il fucile e l’ho fatto sparare: un sacco di gente è morta. Alla fine, vinta la guerra, l’hanno fatto eroe del mondo, e così si è andato a riposare in una casetta sopra una mensola in alto, che per arrivarci ho dovuto prendere una sedia dalla cucina. A quel punto papà mi ha chiamato, ha detto: «È pronto, vieni!».
Dopo mangiato mi ha chiesto: «Che cosa vuoi fare domani? Guarda il giornale e vedi se c’è un bel film». Gli ho detto che c’era quello nuovo di Van Damme, però era a Ferrara. «Va bene lo stesso. Stasera mangiamo la pizza?» Io ho detto sì perché mi piace un sacco la pizza.
Quando sono andato in bagno, mi sono guardato allo specchio, poi ho riempito il lavandino d’acqua calda e ci ho buttato dentro Joe. Gli dicevo che era sporco perché aveva fatto la guerra. L’ho spinto sott’acqua ma aveva ancora il sorriso suo solito, con le bollicine che erano venute su. Ho pensato che stava affogando, l’ho tenuto lo stesso sotto fino a quando l’acqua è diventata piatta.
«Sei morto» gli ho detto.
Quando dal cinema eravamo tornati a casa, era già buio. Mamma mi è venuta a prendere e ha litigato un po’ con papà, anche se lui, prima di andarmene, mi ha fatto l’occhiolino. Mamma ha messo la mia valigia in macchina ed è partita; dopo un po’, ha visto Joe, mi ha chiesto se era nuovo, ma io non ho risposto.
«Ti sei divertito?»
Ho alzato le spalle.
«Sei sempre molto comunicativo, eh?»
L’ho guardata un attimo, ho abbassato gli occhi.
«Come si chiama?»
«Joe.»
«Ah ecco, io ti avevo detto no, e lui te l’ha preso.»
Volevo lanciare Joe fuori dal finestrino.
«Scusa,» ho detto, «non lo faccio più.»
«Macché, dai, era quello che volevi, no?»
Ho fatto sì con la testa.
«Allora per un po’ basta.»
Ha acceso la radio e non abbiamo più parlato.
In camera ho messo la cassetta degli 883 a tutto volume e ho pianto. Ho dato dei morsi al cuscino, dei pugni al materasso. Poi mi sono guardato allo specchio dell’armadio. Il giorno dopo, a scuola, ho detto a Simone di Joe.
«A me lo comprano per Natale. Chi te l’ha preso?»
«Mio papà. Mi ha dato ventimila lire.»
«Che roba! E a Natale cosa ti comprano?»
Non lo sapevo.
«Mia mamma dice che le cose vanno desiderate perché, se si ha tutto e subito, poi non è più bello.»
In quei giorni mi sono impegnato per giocare bene con Joe, ma lo sentivo come stonato. Capito? Gli ho fatto fare solo delle mosse, delle giravolte. Poi ho sentito il vomito. Pensavo a come mai papà me lo aveva comprato e perché mi aveva dato tutti quei soldi. Ho pensato pure al signore dell’edicola che si era messo a ridere; a mia mamma, alla mamma di Simone e a quello che diceva: ma è vero? E se io non voglio più niente? Che cosa me ne faccio di Joe e di tutti gli altri giochi? Queste cose ce le avevo forte in testa, non parlavo, poi vedevo Joe e il suo sorriso, così gli ho detto: «Bastardo!» solo per vedere com’era gridarlo a qualcuno. Mi sono venute tutte le formiche addosso, e una cosa che brucia alla pancia. Mi sono sentito come se quella voce non era mia. Gli ho chiesto subito scusa e ho sentito che tornava il vomito. Allora ho preso Joe e l’ho lanciato contro il muro. Mi è venuto da piangere, mi sono dato dei pizzicotti alle braccia, delle botte alla testa, mi sono detto che ero stupido, stupido, stupido! C’era un rumore nell’aria; la mia faccia, la mia bocca e anche i capelli erano pieni di formiche. Quando sono stato un po’ meglio sono andato in bagno e il bambino nello specchio non ero più io. È vero, l’ho chiamato col mio nome e poi mi sono stancato di vedere che non rispondeva.
Con Joe erano ormai gli stessi giochi, finché mi sono stufato e ho cominciato a fargli male. Lo prendevo e lo lanciavo contro il muro, lo facevo così tanto che a un certo punto gli si è staccato un braccio. Tutto piegato e aggiustato con l’Attak, aveva il sorriso sempre uguale. Allora l’ho messo sopra al fornello. Il fuoco l’ha fatto diventare nero, c’era la puzza della plastica sciolta, le grinze nel corpo. Ho fatto lo stesso anche con la faccia: è diventata molle e sgocciolava. Alla fine, è rimasta solo una pallina bruciata, niente più sorriso. Gli ho fatto un buco con una penna per farlo respirare, e ogni tanto da lì sentivo un fischio. Poi l’ho nascosto per non fare vedere a mamma cosa gli avevo fatto.
E così, oggi, è già passato un mese. Mi capita di fare il giro della casa e di guardare dove sta adesso. La mia casa è divisa da un recinto perché dall’altra parte ci vive un’altra famiglia: neanche loro devono vederlo.
Sono andato dalle parti del granaio. C’è un pezzo che è quasi crollato, non l’hanno mai aggiustato e così la casa è come grattugiata via. A me va bene, perché è dalla parte dei miei vicini e chi se ne frega. È lì che sono andato a giocare. Ho fatto dei passi lunghi, scansando le pozzanghere, il fango, camminando poi nell’erba alta; c’erano un sacco di cose abbandonate: lastre di cemento, gabbie di ferro, mucchi di mattoni, secchi scoperchiati pieni di olio bruciato… E poi il tetto, dove l’ho lanciato qualche settimana fa.
Prima di buttarlo lassù, Joe ha fatto un fischio e mi ha detto: «Ti prego».
Marco Gelli