Tornare dall’America con i fiori in testa: «Flowers» è il racconto di Tonino Ceravolo

 Tornare dall’America con i fiori in testa: «Flowers» è il racconto di Tonino Ceravolo

Illustrazione di Dario Licata

1.

Insieme allo sciroppo all’acero per i parenti e a una gigantografia della CN Tower, si era portato dall’America la fissazione per i fiori. Fiori dappertutto nella casa al paese che aveva dovuto ristrutturare: nella cucina e nel bagno, nel living room e nell’ingresso, dappertutto tranne che nella camera da letto, perché lì Gigliola non li voleva. «Mi stordiscono» diceva sempre, «mi disgustano e non mi fanno dormire.» E hai voglia a dirle che non capiva perché a Woodbridge li coltivasse con tanta cura, mentre qui, qui, se le nominava i fiori per la camera da letto era come se stesse parlando del diavolo. Fuori di casa, diceva, nei prati e nelle aiuole stanno bene i fiori. I fiori stanno bene ai morti e nelle chiese. Dopo tanto discutere, era riuscito a convincerla soltanto per un paio di piccole piante grasse, poggiate sul comò, che producevano una o due infiorescenze all’anno. Fiori rari, che però poteva godersi come preziose gemme colorate e che fotografava persino, per conservarne il ricordo e rivederseli quando ormai la fioritura era passata. E per questa fissazione dei fiori, al loro rientro definitivo da Woodbridge, avevano preso quasi tutti a chiamarlo Flowers, come di un altro che era stato in America dicevano Dominik e di un altro ancora Gio. Lo chiamavano Flowers per questa fissazione dei fiori, che sembrava patologica: tutto ruotava attorno a steli e corolle, che erano di fatto l’unico motivo delle sue uscite da casa. Andare in un negozio o in un altro per vedere se c’erano state nuove consegne e sentire il negoziante che gli diceva che non ce ne sarebbero state ancora per qualche giorno, perché le rose non erano pane e non si poteva certo fare un rifornimento quotidiano per lasciarle lì a marcire. E nonostante sapesse tutto questo, ogni mattina era lì, a chiedere come se non sapesse, a insistere e a voler sapere quello che già sapeva.

2.

Poi c’era stata anche quest’idea di farsi una cappella al cimitero, per sé e per Gigliola certamente, ma pure per i figli se avessero deciso di tornare a seppellirsi al paese e per trasferire i genitori, i suoi e quelli di Gigliola, che ora stavano nei loculi. Una specie di seconda casa per la vita dopo la morte. E se il cimitero era casa, aveva voluto fare le cose per bene. Era andato dal fotografo per la foto tessera, mentendogli che gli servisse per i documenti. Prima ancora si era preparato con cura: era stato dal barbiere e aveva provato il vestito che avrebbe indossato davanti all’obiettivo, misurandone due o tre per vedere quale gli stesse meglio. Per finire aveva messo pure la cravatta quella buona, del matrimonio, lui che aveva il collo troppo largo, glielo diceva sempre Gigliola. Con la foto appena stampata era andato dal marmista. Aveva scelto il tipo di marmo, e pure la cornice per la foto. Dopo era passato al portafiori, da abbinare alla cornice: ce n’erano di semplici e di decorati; e aveva scelto quello con la rosa. In vista della nuova cappella aveva aumentato l’acquisto settimanale di fiori. Alla domanda del fioraio su cosa ci facesse con tutti quei fiori, tutte le volte lui faceva finta di non sentire o gli rivoltava la frittata contro, perché era costretto, gli diceva imbrogliandolo, a prendere sempre più fiori il giovedì visto che molti fino alla settimana successiva non arrivavano, si rinsecchivano subito e pendevano mosci nei vasi sparsi per la casa, come un braccio paralizzato che di alzarsi non voleva saperne. E allora bisognava averne di riserva e curarli meglio che si poteva e sperare di trovarsene sempre un po’ in buono stato per sostituire quelli che si perdevano. Insomma, fiori e tanti per la cappella al cimitero e innanzitutto sotto la sua foto.

La cappella che aveva costruito era così: sul lato sinistro i parenti di Gigliola e sul lato destro i suoi, mentre al centro, sulla parete di fronte all’ingresso, lui e Gigliola, ma Gigliola senza portafiori e senza cornice per la foto. A Gigliola aveva nascosto tutto, finché lei non era andata alla cappella e aveva scoperto la foto del marito e il portafiori sotto e i fiori dentro. Nella foto lui se ne stava serio e impettito, un po’ ridicolo con quella sua calvizie e gli occhialini da miope, concentrato nella rigidità della posa. Rientrata a casa lo aveva trovato tutto indifferente, come se non fosse successo nulla, intento a cambiare l’acqua nei vasi pieni di fiori, e si era messa a urlare perché non si era vista mai, da che mondo è mondo, una cosa del genere e bisognava essere toccati da qualche parte per poterla fare. E gli tirava fuori che non era da cristiani compiere una simile azione e che chissà cosa aveva letto e con cosa si era rovinato il cervello, se non c’era da pensare che ci fosse anche qualche setta dietro, perché si sa come vanno certe cose con i morti. Poi, da lì a un anno, Gigliola era morta e la sua vita adesso era questa: fiori a casa, ma mai in camera da letto, a eccezione delle due piante grasse, per rispetto della volontà di Gigliola e fiori nella cappella del cimitero e i giovedì mattina trascorsi dal fioraio a scegliere e a litigare sui prezzi. Intanto i paesani avevano abbandonato quell’aria di scherno, che prima ogni tanto se ne stava sulle loro labbra, come a immedesimarsi forse nella sua solitudine.

3.

Ecco, questo fatto della solitudine non era certo di poco conto, perché la solitudine nei paesi è peggiore che altrove, e la solitudine nei paesi tuoi è più brutta che nei paesi degli altri. Questo aveva scoperto con la morte di Gigliola e si era accorto che neppure i fiori bastavano più a riempirgli la vita, perché ora li vedeva smunti, rinsecchiti, avviati prematuramente verso lo sfacelo e i petali che raccoglieva da terra gli sembravano un preannuncio di fine per quell’universo sfavillante diventato adesso di un solo colore, grigio, triste. Perciò aveva deciso di liberarsi dei fiori e la casa di via Poerio era tornata senza colori, come era prima che ne prendessero possesso alla fine dei lavori dopo il ritorno da Woodbridge. E casa, adesso, era soprattutto la cappella al cimitero. Se prima le visite erano state un paio di volte alla settimana, ora si erano fatte quotidiane da quando Gigliola non c’era più, perché, con tutto il dolore per i figli lontani, la famiglia in quel posto si era riunita di nuovo, lui compreso, che si considerava tra gli abitanti legittimi di quel tempietto pieno di lapidi. E quando il custode annunciava l’ora di chiudere era ben contento di sapere che rimaneva lì la sua foto e pensava che quel ritratto avrebbe cominciato a intrattenere un dialogo muto con le altre foto, un dialogo che doveva esserci e c’era. Chi poteva, poi, garantire che i vivi fossero davvero vivi e i morti davvero morti e che quei due mondi davvero fossero separati e non comunicanti e che i morti non parlassero tra loro? Più facile pensare che la morte è un’altra faccia della vita e la vita un modo diverso di essere della morte visto che, come dicevano, si muore un poco ogni giorno. E chi aveva detto che era fuori di testa, pazzo o svanito a essersi messo, da vivo, la lapide e la foto e i fiori al cimitero forse non aveva mai avuto questo pensiero. E questo era il pensiero che aveva pensato pochi minuti prima di essere ritrovato sotto la sua lapide dal custode del cimitero, disteso e come assopito. In effetti, tante volte, dentro di sé, si era detto che sarebbe stato come addormentarsi e così era stato.

 

Tonino Ceravolo

Blam

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