E se si muore: un racconto di Vincenzo Carriero

Illustrazione di Zaida Marín
E scavo scavoscavo senza sosta, ma il fondo di ’sto fosso non arriva mai. Polvere di carne ossa e trucioli di legno, scavo ché in questa scatola io mi sento stretto, non desidero altro che uscire. L’ho pure fatta la domanda in direzione, quarto piano, ufficio sinistri, don Pietro chiavi d’oro e una parola sola, Chiudete bene il portone che butta vento. Ci perde gli occhi su quel foglio con i numeri stretti e azzeccati, macchie su griglie di sudoku che non gli viene mai, e per questo sta sempre incazzato. E io impalato in piedi a confessare il mio disagio, e lui a fare finta di ascoltare, tuculiando un po’ la testa, come di pacienza, Vince’, ha detto, tra poco più di un mese è il tuo primo nuovo compleanno, lo sai che voglio dire? No, gli ho risposto, ma lui non si è scomposto, si è aggiustato gli occhiali sul naso, un poco ha sbuffato, poi ha detto Figlio mio, qui la morte si vive, mille rughe ad abbozzare un sorriso e io zitto, occhi bassi, mani giunte, le dita dei piedi a fremere nei sandali, ho annuito, fatto finta, non ci ho capito niente. Sono tornato quatto quatto alla mia cella, nicchia di ceramica calda e asettica, ho ripreso a scavare. E scava scavascava, che i pensieri sono storti, è così che mi arrivano, e fanno male. Penso a te, ho sempre pensato a te, pure quel giorno lontano di quasi un anno fa, io, disteso sul pavimento freddo, lucine di Natale e puzza di fritto misto di pesci e calamari, ho scoperto, lo sai, che pure dell’aria uno può tenere fame. Mozzicavo a caso come uno di quei pesci prima di morire, così mi sentivo, gridavo senza suoni, senza parole, senza sospiri, il tuo nome. E tu che dietro la porta non sapevi cosa fare. Il cuore che quando ami, e ami tutti i giorni, quello si consuma, quel cuore lo sentivo stracciato, sì, stracciato, mannaggiamia, stracciato proprio mo’ che mancava poco alla pensione, dopo una vita di fatica e tribolazione, pochi soldi, quattro figli, e tu, occhi neri solo per me, sempre per me come dalla prima volta. Te la ricordi? Seconda domenica di ottobre, la festa patronale, il Cuore di Gesù, vestito rosso sangue e piedi nudi, tu alle giostre, di sera, luci colorate zucchero filato e risate. Io, quasi uomo, tu ancora bambina, così sembravi, eppure, mezze parole fra noi, che lo sai, ho sempre parlato poco, sulle prime non mi hai creduto, e io, di arrendermi non era cosa, che me lo ricordo, come fosse mo’, quello strano dolce dolore in petto, quella convinzione che sarebbe stato per sempre, lo è stato, hai visto? che ti devo dire, che te l’avevo detto? Eppoi quella promessa, che ci avresti pensato, e io che ogni giorno fuori dalla scuola te lo chiedevo e tu, Ancora ci devo pensare, E quando ti muovi? Mamma non vuole, e me la ricordo tua madre, con il coltello a minacciare cento volte, e io altre cento a non mollare, non mollare te, i tuoi occhi, il sorriso che da sempre mi ha fatto sognare. Che poi solo questo volevo, sognare insieme a te.
E scavo, scavoscavo, senza fiato, che la terra di ’sto fosso non finisce mai, è dura, e scura, è tutto scuro qui dove non c’è un nome, dove non c’è un peso, e tutto sembra uguale, difficile da spiegare, qui dove noi, noi tutti, siamo uguali e senza nome, senza colore, inna danza shi-shi-mai, come una corrente a mare, durante un temporale. Chiudo gli occhi e sogno, senza costanza, ti cerco e tu nun ce stai ’cca.
Fa cavero Tere’, che pare un forno, mani spaccate e sangue che si ammescano, non mi rassegno, che dentro a ’sto scuro io, te lo confesso, tengo paura, sì, paura, che l’ho sempre tenuta ma non te l’ho mai detta, mai data a vedere, mai, che poi la paura se la tenevo io la tenevi pure tu, come nella notte che ce ne siamo fijuti, te la ricordi? sì che te la ricordi, camminavi e non parlavi, da lontano io ti guardavo, parlavo e non capivo, e tu dicevi ma non dicevi, donna eri e bambino io, ché la prima volta è sempre così: ignara di mille carezze, tu che finalmente eri mia, io che tuo lo sono sempre stato. E scavo, scavoscavo, che ti vedo, sì, ti vedo, stai piangendo, io, pigiama a righe, solo, nel mio letto, Massimo Decimo Meridio, i Campi Elisi, è tutto perfetto. L’avrò visto mille volte, è il film della nostra vita, sì, la vita che mi passa davanti, mo’, proprio mo’ che sto morendo, mannaggiamia, ma tu hai capito? ho capito, Uggesù, ho capito, ho capito.
Don Pietro sta qui come me che smiccia e ride, stringe un foglio con un sacco di numeri ammiscati ammaccati e piccoli piccoli. Scommetto che il sudoku gli è venuto. Don Pie’, gli dico e pure lui ha capito, ha già capito, un minuto solo, solo un minuto, il tocco delle labbra tue sulle mie, le sento, sì, ancora le sento, ancora un momento, uno solo, sì, uno solo, eppoi la morte, la vita, tu io, ammiscati insieme. È stato bello.
Vincenzo Carriero
2 Comments
Tema affrontato con l’ironia classica degli autori del Sud. Bene. Complimenti.
Bellissimo. Tematiche che già di loro mi attraggono molto. Oltretutto sviluppate benissimo, in un flusso molto scorrevole, con una leggerezza e un’intimità che fermati proprio. E il finale tocca proprio le corde giuste.
Non so se ti voglio bene per averlo scritto, o se ti odio perché vorrei averlo scritto io. Complimenti.