Un’anomalia può essere una speranza? «Distopia N. 30» è il racconto di Giulia Bartolini
È come quando, a sei anni, disegni la tua famiglia: una casa con un giardino di rose, un cielo azzurro che fa da tetto, un bell’albero verde, un sole giallo che sorride e poi ci metti: te, tua madre, tuo padre e un cane. Vent’anni dopo, non c’è la madre, non c’è il padre, il cane è incontinente o è già morto, il sole è un palla incandescente che sta finendo di bruciare l’idrogeno e, per quanto riguarda il giardino, hai a malapena un terrazzo, piccolo, all’ultimo piano di una palazzina che dà su un quartiere periferico, caldo d’estate e ventoso d’inverno, ambulanze che passano ogni dieci minuti e tu che di lavoro fai qualcosa part-time: a malapena ci arrivi al fine settimana, sarebbe stato utile vivere in una zona silenziosa, ma, dopotutto, abitare sopra la metropolitana conveniva, e il precariato va di moda.
Sono un libero professionista
(non hanno mai trovato un termine migliore, tipo i barboncini; le prime testimonianze della razza risalgono al Seicento eppure non c’è mai stato un modo migliore per definirli, tranne un diminutivo, all’inizio si chiamavano Barboni, erano cani da riporto per anatre agonizzanti.)
Ho 30 anni
(e da quando li ho compiuti mi sento maturo, addolorato, frustrato e sicuro di aver compreso questo stato d’animo al punto da afferrare con orgoglio il senso di depressione precoce che è solito accompagnarlo.)
Non è un primavera tranquilla, porto i baffi e sono certo che non mi stiano bene
(ma sbarbato mi piaccio ancora meno quindi di base sto sperando che la barba mi cresca più velocemente dei baffi finché non è tutto tornato pari.)
È notte e io cammino.
Le città non sono mai state luoghi incantevoli ma oggi non sono neanche piacevoli. E così le campagne, figlie del progresso quanto i complessi urbani, hanno però tradito con maggiore forza; il latte è solo in polvere, la lana è sintetica e così sono morti anche i lupi. Volpi ce ne sono ancora ma solo perché hanno cominciato a mangiarsi tra di loro, il risultato alla fine sarà lo stesso.
Non so dove sto andando, mi succede sempre, l’ho deciso io.
(È più facile dare un’occhiata così, fugace, di notte, giusto per farmi un’idea.)
Non so dove abito ma ho altre informazioni.
(Cose che so, sempre, quando comincio a camminare.)
So che il mio vicino di casa ha dodici anni, puzza ancora di latte ed è già Ceo di un’azienda che si occupa di gestire l’Ai dei veicoli: macchine che ti suggeriscono il percorso migliore in base all’umore, o che mettono la musica giusta se capiscono che vuoi scopare.
Cammino ma so che non incontrerò nessuno.
(le strade sono deserte da anni, non ci si muove più a piedi, Bradbury l’aveva già capito.)
Se per caso devi fare un tragitto a piedi lo fai con le cuffie nelle orecchie, «Suoni della città negli anni 2000», «Rumori d’un cantiere edile a fine giornata: 2054»; «Suoni della metropolitana negli anni 90» ecc.: Ambient sound effects (Ase), a seconda del posto in cui ti trovi.
È colpa del silenzio.
Di questo mi stupisco sempre, che la mia distopia sia così poco rumorosa, ma d’altronde, nel disegno con il sole giallo e l’albero verde, non c’erano rumori. E me lo spiego, eh, tutte le volte mi metto lì e me lo spiego razionalmente: macchine elettriche, persone che si spostano velocemente da un edificio a un altro, e poi dentro… dentro gli edifici ci sono dei suoni, certo, ma pochi, i telefoni non squillano, vibrazioni percorrono il corpo di chi riceve un messaggio. Le ambulanze non hanno più neanche la sirena, si muovono a una quota specifica, in una corsia preferenziale, dove né air-cars né aerei possono passare (quante multe ho preso a quota 118 M).
Un silenzio immenso, motorizzato, tecnologico, intelligente, un silenzio pesante e ronzante difficile da accettare, irrespirabile, inascoltabile, inumano. Per questo gli Ase, di tutti i tipi, c’è un mercato incredibile di quella roba.
Qualcuno ha detto che il cervello umano si evolve molto più lentamente di quanto faccia la tecnologia; il che è assurdo se pensiamo che è padre di quella stessa tecnologia. Tuttavia, mi piace definirlo più un donatore di sperma che un vero e proprio padre: un nerd piuttosto sveglio si fa una sega tecnologica su un giornaletto pieno di equazioni, e da lì parte il progresso; ma il bambino che viene fuori corre, ovviamente, molto più veloce del padre, vola addirittura, oltre il tempo e lo spazio.
Non è un silenzio piacevole, ora che la campagna è morta: è come quello di un forno a microonde, onde silenziose e un segnale solo, unico, intermittente e acuto, quando tutto è cotto a puntino. Io credo che andrà così, alla fine, tipo una bomba: quando il sole starà per finire l’idrogeno, sentiremo, acuto, un bip, per dieci secondi, un ultimo, ultimo dell’anno, poi buio.
Improvvisamente in questo silenzio in cui cammino, ecco che sento un dialogo. Nel 2199 sentire un dialogo per strada è più raro che riuscire a trovarlo in un’opera di drammaturgia contemporanea italiana del Ventesimo secolo. Mi fermo, e ascolto. «Oh sì, sì, ti prego» una donna, mi pare. (I generi sono una roba complessa oggi.)
«Ti piace?» chiaramente un uomo. (Ho sempre pensato che non si possa veramente scrivere il sesso. Certo la fantasia esiste, la fantasia è brava, è più brava dei porno, con il tempo, è più capace. Esiste la fantasia, esiste il sudore, l’imbarazzo e il pudore. Per questo di sesso non scrivo mai. Perché sennò poi mi tocca usare parole come culo, tette, orgasmo.)
I due tizi continuano a dialogare. Mi nascondo e li osservo, dietro l’angolo: avranno, sì e no, cinquant’anni. Sembrano molto più giovani ovviamente; l’aspettativa di vita si è alzata, si possono fare figli fino a settant’anni (il bambino non nasce completamente umano, ma questa è un’altra faccenda; politica più che altro).
Li guardo. Lei è seduta su un muretto, e lui davanti a lei. Sono abbracciati, le cuffie nelle orecchie.
LEI: urla.
LUI: «Fai piano, che potrebbero sentirci». (Mi guardo intorno. Deserto completo.)
LEI: «Non me ne frega niente». (Che coraggio. Mi guardo intorno. Deserto completo.)
Continuano. Li guardo un altro po’, con pudore, io le cuffie non ce le ho, non me le porto mai durante le sedute, sento tutto. A un certo punto capisco che è finita. Tutto torna silenzio alle microonde. I due si staccano, si guardano intorno, si rivestono. Non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, nessuno ha visto, sentito, o proibito. Mi nascondo e li vedo allontanarsi, ognuno per la sua strada. La ragazza viene nella mia direzione, mi nascondo meglio e poi… poi no… esco fuori dal mio nascondiglio e la supero prima che lei superi me. Lei mi vede, incredula, io la guardo, per un attimo, il viso accaldato, le cuffie alle orecchie. Non diciamo nulla. Ognuno va avanti per la sua strada, ma con la coda dell’occhio la vedo sorridere, convinta d’essere stata scoperta.
Non esiste nulla senza testimoni. Tanto meno l’amore.
«Tutto ok?»
«C’è stata un’anomalia… (pausa) Ho trovato due tizi che scopavano…»
«In mezzo alla strada?»
«In un vicolo, sì.»
«Non è un’anomalia…»
«Ma le regole…»
«Le regole sono tue. (pausa) Tuo il disegno dell’utopia, tua la distopia che ne consegue.» (pausa)
«La prossima volta possiamo fare il percorso in campagna?»
«Dipende cosa disegni.»
«Centrano qualcosa con… (pausa) con quello che succederà…?»
«Noi vi abituiamo all’idea che ciò che desiderate, ciò che immaginate, non sarà così, che nei prossimi cinquant’anni si possa ribaltare… terapia preventiva.»
«Preventiva sì, ma le anomalie?»
«Le anomalie sono speranze. Una distopia non funziona senza speranza. A sei anni disegni la famiglia perfetta, ciò che è e dovrebbe essere per sempre, no? Hai notato i cani? I bambini li disegnano anche se non hanno un cane, disegnano padri che se ne sono andati, madri bionde invece che more, perché? Perché il disegno è già mondo parallelo, è già un’utopia… O una distopia, se preferisci, con i suoi elementi di speranza: la madre bionda, il cane… È l’anomalia che crea la distopia, non il contrario.»
«La mia speranza è guardare gente che scopa di nascosto?»
«Pensi che sia così?»
«No… (pausa) ci vediamo giovedì?»
«Grazie Mattè, puoi saldare direttamente alla segretaria.»
Giulia Bartolini