Giocare con i Lego per costruirsi un futuro: «Costruire parallelepipedi» è il racconto di Luciana Ratto

 Giocare con i Lego per costruirsi un futuro: «Costruire parallelepipedi» è il racconto di Luciana Ratto

La scrivania come metafora di vita era la lezione di mio nonno per salvarmi dalla nullafacenza e dalla smidollaggine. A cinque anni non afferravo bene cosa intendesse e mi arrovellavo per ore e ore a cercare di capire chi tra le persone che mi circondavano fosse il temperamatite, la gomma, la penna o l’agenda. A sei anni avevo capito che l’agenda era mia madre, che, degna figlia di mio nonno e ozio vade retro, riempiva il mio tempo di impegni perché non fosse mai che trascorressi un intero pomeriggio davanti al televisore, si rovinerà la vista la bambina, o corressi dietro a un pallone, ché bisogna capire che la vita non è tutta un gioco. Nemmeno la lettura era un passatempo concesso; i mondi fantastici ti mettono in testa idee strane, mi diceva mia madre e anche mio nonno, leggi piuttosto l’enciclopedia e impara a fare qualcosa. Rimboccati le maniche, mi dicevano, perché il futuro non si costruisce da solo. Che poi come lo dovevo costruire questo futuro che nemmeno si vedeva, proprio non lo capivo. Loro allora mi rispondevano che non lo capivo perché non lo pensavo; devi progettare, dicevano, e poi saprai come costruirlo. Quando mi vedevano intenta sui Lego, sorridevano soddisfatti, convinti che il mio sarebbe stato un avvenire da architetto o da ingegnere. Non sorridevano più quando mostravo le mie costruzioni; mi chiedevano cosa fossero e io rispondevo con roba del tipo: stelle filanti, un’esplosione di colori oppure la pace nel mondo. Allora, delusi mi rimandavano indietro dicendo che erano solo accozzaglie di mattoncini senza un criterio. Dovevo costruire dei solidi, un parallelepipedo, un cubo o qualcosa del genere. Mi serviva progettare di più. Ma io la parola parallelepipedo non sapevo nemmeno pronunciarla.

A dieci anni capii che il nonno era il regolo, perché era lui che indicava la direzione. Era lui che puniva con il suo sguardo severo, puniva persino la mamma con quei suoi occhi di ghiaccio e un silenzio che diventava più pesante del cemento. Sgridare papà, invece, non ne valeva nemmeno la pena; avevo sentito dire al nonno che lui ormai era un caso perso e che se io stavo crescendo così era perché avevo quel padre lì. E la colpa per mio nonno era di mia madre, che si era lasciata conquistare da quella cosa inutile di mio padre. Lei non lo aveva difeso.

Secondo la metafora del nonno, la scrivania deve essere sgombra dalle cose inutili. Fanno disordine e basta. Anche mio padre sembrava sempre fuori posto a casa nostra. Ma fuori… fuori papà si trasformava, peccato che il nonno non lo vedeva perché se ne stava sempre chiuso nella sua stanza a dire alla mamma cosa non andasse nella nostra famiglia. Papà fuori faceva una cosa che a casa nostra sembrava vietata. Non che il nonno l’avesse proibito, altre cose erano proibite, come per esempio interromperlo mentre parlava, masticare con la bocca aperta oppure alzarsi prima di lui da tavola, ma nessuno faceva quello che papà osava fare fuori casa; nessuno sorrideva. Sorridere per il nonno era pratica vietata, che il riso abbonda sempre sulla bocca degli stupidi e gli stupidi non sanno costruire progetti di vita. Avevo dieci anni all’epoca e sapevo fare due più due: mio padre non avrebbe mai costruito un parallelepipedo. Beh, io dovevo riuscirci se non volevo fallire. Ecco, il nonno aveva detto anche questo, che quella cosa inutile di mio padre era un fallito.

A dodici anni dunque presi la decisione: mi sarei impegnata per trovare la mia strada. Dovevo sgobbare per raggiungere i miei obiettivi. Potevo scegliere, mi aveva detto il nonno, avvocato, dottore o un lavoro in banca, che scegliessi io la mia strada. Ingegnere e architetto era meglio evitare, non avevo il talento, era emerso già da piccola. Solo una volta chiesi se ci fossero altre possibilità, ma lui si stupì e inarcò un sopracciglio come a chiedermi a cos’altro potessi aspirare per avere successo. Nulla, dissi, certo sono belle professioni. Sgomberai la mia scrivania e mi misi al lavoro. Nessuna distrazione, solo ordine e rigore.

Così ho studiato, così ho vissuto e mentre trascorrevo la mia vita a faticare su libri noiosi che non avevano colori, mio padre lasciò la nostra casa. Se n’era andato in silenzio, quasi non ce ne accorgemmo, come quando una cianfrusaglia abbandonata sulla superficie della tua scrivania viene spostata. Nessuno se ne accorge, fino a quando un giorno non ti viene in mente e ti chiedi che fine abbia fatto. E ti stupisci perché non riesci a toglierti dalla testa il pensiero che in realtà ti è indispensabile.

 

Luciana Ratto

Blam

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2 Comments

  • ho letto con grande interesse il tuo racconto. Ben fatto, ben strutturato, ben scritto. E mi ha colpito favorevolmente il non detto in cui lasci ciò che il padre faceva “fuori casa”, ma è sicuro che si trattava di qualcosa che con la geometrizzazione dell’esistenza non aveva nulla a che vedere.
    Nei racconti, spesso un’omissione significativa ma collocata strategicamente dice molto di più di molte parole. Brava davvero.

  • Bello. Preziosa l’abilità del dire e non dire. Soprattutto, mi colpisce il confronto tra il distacco apparente verso l’agenda e il regolo e l’intimità, appena sussurrata, per quel sorriso. Grazie

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