Blu: un racconto di Carola Maselli
Abbiamo fatto che io ero la regina e lui era il cavaliere. Doveva raccogliere per me una pianta magica e rara che mi salvasse da un incantesimo. Aveva un mantello blu perché nelle storie della nonna i maschi hanno sempre qualcosa di blu, così come le femmine hanno sempre qualcosa di rosso e allora io avevo le labbra rosse come le ciliegie. Me lo sono inventata anche se non serviva, perché lui ha la pelle bianca e sottile tanto che gli si vedono le vene e sono come i tubicini di inchiostro che ci sono nelle penne biro blu. Vorrei portarmi il suo braccio alla bocca, così come faccio con i tappi delle penne che mordicchio. Ho detto che ho le labbra rosse perché ai maschi delle storie di nonna piace baciarle anche di nascosto.
Lui ha fatto che si arrampicava su una roccia perché la pianta che mi serviva era in cima a una scogliera a picco sul mare. A volte cadeva, perdeva la presa sulle pietre, ma andava avanti. Quando era vicino allungava una mano ma un folletto lo fermava e allora faceva come per combattere, vinceva e afferrava il fiore per me. Me lo portava tra le mani a coppa e io lo prendevo con le dita che stringevano niente e che volevano soltanto seguire il percorso delle sue vene che si incrociavano sui polsi.
«Facciamo che in cambio il cavaliere sposa la regina?» ha detto.
Io lo sapevo, in tutte le storie poi succede così e succede anche che lo sposo fa del male alla sposa o che capita qualcosa ai loro figli, che si scopre una camera segreta dove ci sono mogli morte o si fa un processo perché una strega dice che la regina ha un amante. Però io volevo tutto quello da lui: il male, gli omicidi, i feti morti. Gli ho detto sì e ho desiderato che le mie labbra rosse trascolorassero, che mi trasmettesse il blu suo e di tutti gli altri maschi.
E invece ha voluto smettere di giocare a regina e cavaliere, ha detto che ne dici di fare merenda e io ho risposto ok. Abbiamo lasciato il cortile e mi ha condotta in cucina, dove sua mamma ci aveva lasciato biscotti e tramezzini.
«Ti piace di più il dolce o il salato?» ha chiesto lui prendendo un tramezzino al prosciutto. Lo ha avvolto in un tovagliolino blu. Ho desiderato dare un morso accanto al segno lasciato sul pane dall’arco dei suoi denti dritti.
«A me piace il dolce» ho risposto.
«Allora mangia.»
Ho preso un biscotto e dentro c’era della marmellata di fragole. Nelle storie che racconta la nonna, alle femmine capitano sempre delle cose brutte quando mangiano qualcosa di rosso e sono convinte di essere felici dopo, perché arriva un maschio che ha qualcosa di blu, le bacia, se le porta via e non sanno cosa può capitare nel suo castello. La nonna dice di non accettare mai il cibo dagli sconosciuti, perché poi potrebbe farmi male alla pancia e quell’uomo potrebbe approfittarne per darmi un bacio dicendo che questo mi salverà. Io sono sempre stata attenta, ma da Gioele mi farei baciare se i biscotti di sua mamma fossero avvelenati.
Abbiamo finito la merenda e lui mi ha detto che voleva farmi vedere il suo nuovo gioco per il pc.
«Vieni in camera mia» ha fatto.
Ci sono entrata piano, come se avessi varcato la soglia di un mondo parallelo nel quale ero inciampata mentre inseguivo un coniglio bianco. Non ero mai stata nella stanza di un maschio. Le camere da letto dove venivano portate le fanciulle delle favole erano luoghi bui, con letti che non finivano mai e dai quali le ragazze non riuscivano a saltare via se qualcuno le mordeva al collo con denti lunghi e appuntiti. Ma la stanza di Gioele era piccola, ordinata, con libri, poster, un canestro appeso a una parete e una chitarra classica appoggiata all’altra, e il suo era un lettino come il mio, con una coperta che lo avvolgeva preciso, senza pieghe. Quando mi ha invitata a sedermici su l’ho fatto con molto garbo, appoggiandomi cauta per non guastarlo.
Lui ne ha riso. «Mettiti comoda.»
«Sono comoda» ho ribattuto.
Lui ha scosso le spalle, ha fatto ok, e si è seduto accanto a me, appoggiando la schiena al cuscino e allungando le gambe sul materasso. Una sua coscia premeva contro il mio ginocchio. Mi ha parlato di un gioco di maghi e draghi, di viaggi nel tempo e di macchine volanti, mi ha descritto il personaggio che si era creato, un fuorilegge abile con l’arco, figlio rinnegato di uno stregone. Io ascoltavo e guardavo quel suo pantalone blu, che conteneva quella sua gamba, che era segnata dalle sue vene, che pulsavano impercettibili contro il mio ginocchio ossuto. Avrei voluto toccarlo per sentire che davvero sotto la sua tuta c’era tutto questo.
Non mi ero accorta che aveva smesso di parlare. In silenzio, mi guardava.
«Che c’è?» ho detto.
«Se mi dici a cosa stai pensando ti do un euro.»
La nonna mi ha raccontato una storia in cui c’era un diavolo che si aggirava di notte tra le case dove dormivano le fanciulle più belle del paese. Si infilava nei loro letti, le legava per i capelli alla testiera e le possedeva. Diceva proprio così e la S diventava un sibilo che mi accompagnava misterioso in un mondo di sogni inquieti e senza senso. Io le avevo chiesto cosa significava, ma non mi aveva voluto rispondere. Aveva detto solo che i maschi facevano così quando si infilavano nei letti delle femmine e che io dovevo stare attenta. Seduta accanto a Gioele, ho pensato che sarebbe stato bello essere posseduta da lui, farsi raccogliere sulla spiaggia come un sassolino alla fine dell’estate e spuntare fuori dalla tasca della giacca in una giornata grigia e ventosa per ricordargli il caldo e il sole.
«Penso al mare e ai sassolini» ho detto. «E ora dammi l’euro.»
È andato alla scrivania e ha preso un gattino nero di terracotta. Gli ha svitato la pancia e sul letto sono piovute delle monetine. Mi ha dato l’euro.
«Eccolo qui» lo teneva sotto la punta del mio naso tra il pollice e l’indice.
L’ho preso e un suo bacio si è posato su una mia guancia. Ho girato la testa, ho guardato Gioele. Ho cercato sulla sua bocca il segno di quello che era appena accaduto, un’impronta di quel bacio che mi sembrava di aver sprecato. Era stato così veloce e improvviso che non ero riuscita a sentirlo. Mi sono portata la mano sul viso, tastando il punto in cui le sue labbra piccole e asciutte mi avevano toccato. Non c’erano più.
«Torni domani?» mi ha chiesto.
L’ho guardato allibita e mi sono resa conto che Gioele era davvero come i maschi delle storie della nonna. Mi aveva distratta con una moneta e mi aveva rubato un bacio, quello che mi aveva appena dato e che si era ripreso così in fretta. Lo volevo indietro.
«Sì.» ho risposto.
Mi sono avvicinata e gli ho baciato una guancia. L’ho fatto piano, sporgendo appena la bocca, accarezzandolo con le labbra.
Sono scesa dal suo letto.
Quella sera a cena nonna mi ha rimproverata. Avevo i capelli scarmigliati e pieni di nodi.
Carola Maselli
2 Comments
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Complimenti Carola,
ti seguo da “racconti sulla rete”. Bella storia e, quel tocco di eroticità, non guasta in una storia di bambini (mi ha ricordato i romanzi di Cammilleri)…..nice work.