Alma: un racconto di Maria Grazia Patania
Perduta era perduta, ma non se ne vergognava. Al bordello nascosto dietro l’ampia facciata signorile di quel palazzo in stile liberty, Alma era diventata una leggenda. Molti dicevano fosse insaziabile, altri raccontavano di sortilegi e incantesimi che lanciava sugli uomini per farli innamorare. Roberto me ne aveva parlato in tutte le mail; continuava a dirmi: «Quando verrai a trovarci, te la farò conoscere». Me l’avrebbe offerta come regalo di benvenuto, ma rifiutai fermamente. Non sono uno che ama a pagamento e sicuramente non con quelle premesse. «Posso ritrarla? Pagherò il tempo che serve.» Fu invece con queste premesse che la conobbi e ogni suo ritratto rimase incompiuto.
Quando Alma varcò la soglia della camera che mi ero fatto assegnare per via della luce calda e rotonda che penetrava dalla finestra, non notai nulla di strano. Smilza, esile e acerba non somigliava per niente alla creatura conturbante che avevo immaginato. Per strada non l’avrei nemmeno notata, non avrei saputo descriverla. Tuttavia con quella veste sottile e semitrasparente sprigionava qualcosa di etereo che mi catturò. Non si perse in convenevoli. Sapeva di dover posare come modella prima di tornare dagli altri clienti. Tratteggiai molti schizzi e la catturai in diverse posizioni. Docile, si lasciava disporre secondo il mio estro; mi fissava con occhi che non riuscivo mai a sostenere. Docile ma non remissiva, sembrava avere lei il controllo e intanto io provavo a concentrarmi sui disegni abbozzando un numero impressionante di ritratti. A uno sono particolarmente affezionato. L’ho buttato giù per ultimo quando ero stanco e la luce si assopiva al tramonto. Stavo per congedare Alma quando lei si mise sul fianco destro, poggiata sull’avambraccio, le gambe rannicchiate, chiusa come una conchiglia. Le calze nere stonavano con la sottoveste e la carne chiara, ma il centro del dipinto era lo sguardo. Sul camino, nel grande salone, ho appeso una tela enorme e incompiuta: la chioma ribelle e malamente raccolta di Alma mi accoglie in casa, a ogni rientro. Gli occhi mi seguono ovunque. Li sento quando ceno. La sua bocca mi parla muta e immobile senza astio per non aver almeno provato a portarla via da lì. Non ho la certezza che avrebbe accettato di seguirmi. Troppo fiera. Troppo spavalda. Troppo perduta senza farsene un cruccio. Essenzialmente pacificata con la sua condizione di marginalità.
Ero tornato varie volte al bordello. Sempre con la scusa del quadro. Le ore precedenti all’incontro erano dense di domande. Come si vestirà. Cosa avrà mangiato. Avrà messo la colonia profumata al sandalo. E poi il tormento: quanti uomini l’avranno presa. Quanti la prenderanno dopo che sarò andato via. Iniziai a portarle piccoli doni che lei accettava, sì, ma con quel modo come a dire «grazie, ma ora andiamo al sodo». Sono un pessimo conversatore e la mia fama mi è valsa un’irrimediabile condizione da scapolo in un secolo che apprezza lingue lunghe e dicerie. Anche se a un pittore si perdona il silenzio durante il lavoro, il mio risultava opprimente; allontanava le donne. Solo nella stanza con Alma l’assenza di parole non era di intralcio. Ascoltavamo il fruscio della matita sui fogli dell’album da disegno, le lenzuola accartocciate sotto di lei, i vestiti stropicciarsi a ogni mossa. Via via mi abituavo al rumore del suo respiro, dei suoi occhi fissi su di me. Avevo imparato a conoscere il suo umore dai movimenti delle mani, dal passo con cui attraversava l’alcova. Sapevo quando stava per sanguinare: lo intuivo dai contorni del suo corpo gonfio. In quei giorni non lavorava e io ne approfittavo per ritrarla a tariffa ridotta, per invitarla a passeggiare fra le vie della città e bere cioccolata calda. Gradualmente ci trasformavamo in reciproca presenza, parlavamo raramente e spesso mi domandai se non fossero vere le dicerie sulle sue arti magiche.
Un giorno, allo scadere della terza ora di bozzetti, uscì dalla stanza senza congedarsi. Mancò pochi minuti durante i quali da giù arrivò un vociare concitato. Poi tornò, chiuse la porta e si sciolse i capelli. Mi venne incontro con quel suo incedere ingenuo e sfrontato. L’album mi scivolò dalle mani insieme a fogli e matite. Alma non se ne curò. Alcuni fogli li scansò, altri li calpestò per arrivare a me. Con grazia iniziò a spogliarsi. Non esistevano vergogna, pudore, oscenità. Quel corpo fragile sembrava moltiplicarsi in potenza e splendore. Due mosse e svettava nuda davanti a me. Mi prese la mano, mi portò sul letto dove si sdraiò e con precisione mi fece capire cosa fare mentre incurvava la schiena schiudendosi completamente. Successe in fretta, la sentii tremare e solo a quel punto mi aiutò a spogliarmi. Fui un pessimo amante. L’imbarazzo mi distruggeva. Eppure Alma mi accompagnava sicura nell’amore. Il ritmo lo impartiva lei.
La prendevi ma non la dominavi. La penetravi ma non si lasciava afferrare. Più abitavi il suo giovane corpo, più sentivi che qualcosa sfuggiva. La immobilizzavi per possederla tutta e lei trovava il modo di librarsi. Gli occhi ti sfidavano. Qualsiasi cosa volessi farle lei probabilmente l’aveva già fatta decine di volte, ma con te era la prima. O almeno così sembrava. Mi abbandonai a lei, svuotato. Solo allora mi resi conto del pianto. Lo sterno gracile si sollevava ritmicamente e l’abbraccio si trasformò in appiglio. Coi capelli sparsi sul letto impregnato del nostro odore, con la mano poggiata sul mio orecchio affinché nulla turbasse la nostra quiete.
Poi pian piano si sciolse da me recuperando vestiti e contegno. Seduta sul bordo del letto, si chinò a srotolare la lunga calza nera abbandonata sul pavimento prima di girarsi appena verso di me: «Ho pagato solo un’ora. Di più non potevo».
Maria Grazia Patania
1 Comment
Splendida narrazione…delicata ma al tempo stesso potente…elegante e cruda….sarei curiosa di sapere come va a finire la storia…complimenti davvero! Stefy P