A forma di Paese: un racconto di Lorenza Venerus

 A forma di Paese: un racconto di Lorenza Venerus

Illustrazione di Angela Barbiera

Fisso con concentrazione le linee geometriche delle formine davanti a me, mentre sto seduto con le mani tra le cosce. Non oso toccarle, le formine, forse per paura di rovinarle e deformare il loro perimetro soltanto sfiorandole con la punta dei polpastrelli. Devo incastrarle in una tavoletta di legno alla mia destra, devo collocare al loro posto quadrati, stelle, rettangoli, croci. Naturalmente, non è la prima volta che vedo queste forme: il quadrato è la serie di linee tracciate col gesso sulla strada, per giocare a campana; la stella è la lucina nel cielo durante le notti limpide, quando la bora soffia verso sud; il rettangolo è la struttura in legno che incornicia la foto di mio nonno, serio sul comodino; la croce è il crocifisso appeso nell’abside della chiesa in piazza, la testa di Gesù penzolante, le sue costole affaticate. Ma mai come adesso ho visto quelle forme così precise nei loro contorni, la stella senza aloni luminosi a guastarne il profilo, il quadrato senza lati tremolanti per le irregolarità della strada.

Disincastro la mano destra, mi gratto la fossetta del mento e batto la sinistra sulla coscia per scandire il ritmo dei numeri, come mi hanno insegnato: un, doi, trê, quatri. Afferro il quadrato e cerco di inserirlo nel posto corretto, tuttavia il suo legno urta contro la tavoletta: la formina non entra, i lati troppo larghi del quadrato sporgono rispetto a quelli più filiformi dello spazio cavo. Provo a ruotarlo, a capovolgerlo, a spingerlo, a forzarne goffamente l’incastro: è inutile, e lo ripongo sul tavolo. Soltanto ora mi accorgo che la mano ha iniziato a tremolare, mentre il ticchettio febbrile del cronografo mi ricorda che rimangono meno di cinque minuti. D’istinto mi volto verso la massa di uomini e madri con i loro bimbi sulle ginocchia, seduti immobili ad aspettare. L’unico movimento è quello delle palpebre, che si aprono e si chiudono con stanchezza: li osservo nella speranza di un suggerimento, magari un uomo della prima fila che mimi di nascosto con le dita la forma corretta. Tutti, però, rimangono impassibili e una voce profonda alla mia sinistra mi richiama:

«Don’t get distracted, Mr. Marin».

«Non si distragga» fa eco il mediatore all’altro capo del tavolo.

Ruoto il busto verso di loro: la luce di marzo torna a colpirmi gli zigomi, a farmi aggrottare le sopracciglia. I suoi raggi filtrano dall’unica finestra della stanza e fanno volteggiare dei granelli di polvere, cellule epiteliali, briciole di pane, fibre di lana: m’immagino questi stessi frammenti di materia morta attraversare il profilo dei grattacieli nella baia, poco oltre la finestra; qui, invece, si accontentano di atterrare sul manico tozzo di un timbro, sul legno scuro di tavolo e sedie, sulle stelle e strisce di una bandiera afflosciata davanti a noi.

Ma hanno ragione, non devo distrarmi. Guardo di nuovo le formine e conto i lati del rettangolo: un, doi, trê, quatri, anche lui – non me l’aspettavo. Lo incastro nello spazio che credevo appartenere al quadrato: questa volta i lati combaciano coi lati, gli spigoli pieni occupano gli spigoli cavi, e il legno sagomato scende lento. Cinc, sîs, siet, vot la croce – stock!, siet, vot, nûf, dîs la stella – stack!: a venti secondi dalla fine, l’ultima formina scivola al suo posto, i vuoti della superficie vengono tutti colmati. Il torpore primaverile della stanza, indifferente alle mie incertezze, è interrotto soltanto da qualche colpo di tosse.

L’ispettore sposta a sinistra il taccuino e afferra un registro grosso almeno cinque centimetri, su cui questa mattina hanno già trascritto nome, provenienza e razza (sono di Travesio, dicevo, Italia del nord o del sud? mi chiedevano, Che differenza fa? rispondevo io, Certo che c’è una differenza; e così solo adesso, grazie agli americani, scopro che per ventidue anni ero appartenuto, a mia insaputa, alla razza dei «Northern Italians»):

«Ok, Mr. Marin: the intelligence test is over. Now, would you please tell me if you can read and write?».

Mi volto spaesato verso il mediatore: «Sa leggere? Sa scrivere?».

«Sì, so fare la mia firma, ma non ho…»

«He can read and write.»

Forse il mediatore ha capito prima di me che è meglio non dire troppo.

Mi chiedono chi debba raggiungere e rispondo che sto andando da mio padre, terrazziere per una ditta italiana di costruzioni nel New Jersey, Marin Carlo (nel pronunciare il suo nome scandisco sillaba per sillaba, spalanco la bocca, la lingua rotola con precisione sul palato quando pronuncio la elle). È partito da solo, due anni fa, convinto da suo cugino che con quel lavoro si guadagna per davvero negli Stati Uniti, non come nelle miniere del Sudamerica; che perfino un miliardario, Vander-qualcosa, aveva fatto costruire i pavimenti della propria residenza da un’impresa di terrazzieri italiani: robe da no crodi, Carlo. E poi, l’entusiasmo e l’incredulità delle lettere che mio padre spediva a casa, chissà se veri, avevano finito per convincere anche me.

«Address?»

«Indirizzo?»

Infilo indice e medio nella tasca stretta dei pantaloni in tela, e sfilo con un piccolo sforzo un biglietto annerito, leggermente consumato lungo le piegature. Sopra, nella grafia incerta e tondeggiante di mio padre, c’è il suo indirizzo: 61, Conrad Street, Trenton. L’ispettore lo copia troppo velocemente: con il collo proteso verso il registro, vorrei chiedergli se può ricontrollare, per favore, solo per non avere problemi burocratici nei prossimi mesi, sa; ma lui mi precede:

«Mr. Marin, are you anarchist, polygamous or guilty of serious crimes?».

Io non so rispondergli, non capisco nulla.

«Signor Marin, lei è per caso anarchico, poligamo o reo di crimini gravi?» traduce il mediatore.

Capisco ancora meno. Sospetto però, dalla serietà gravosa con cui mi interrogano, di dover rispondere di no, e così faccio, contraendo i muscoli della fronte e piegando in giù i lati della bocca, in un gesto di finta convinzione. Quindi l’ispettore lascia andare la penna sul registro e abbassa il mento in direzione del mediatore, che mi indica l’uscita: lì sulla sinistra, mi spiega meccanicamente, c’è un gruppo, una trentina di persone; devo unirmi a loro e aspettare il traghetto delle sedici per Battery Park, Manhattan.

Una vampata di calore comincia a salire dallo stomaco: tra qualche minuto, i vigneti bruciati dal sole, il vino acido di mia nonna, il profumo di salvia di mia madre lasceranno il posto alle pietre porose dei pavimenti a terrazzo, alle strade asfaltate a quattro corsie, all’incurabile fatica di mio padre, che presto diventerà anche la mia.

Trascino indietro la sedia e mi avvio in silenzio verso la porta in rovere, che mi separa dal vocio inquieto degli altri passeggeri in partenza per Manhattan. L’ultimo viso che incrocio nella stanza è quello oblungo di un uomo appeso alla parete, il suo sguardo affidabile e un po’ cadente che risalta contro la cornice in argento. Se ha dei figli, penso, dev’essere sicuramente un buon padre. Non riesco però a leggere come si chiama: Ilson? E cosa sono quelle due V ravvicinate, come bisogna pronunciarle?

«Next one: Klepacki Jan.»

Fermo sulla soglia, mi volto indietro e lo vedo arrivare: Jan è un ragazzo biondo e dallo sguardo attento, russo o polacco. Credo che riconoscerà quadrati, stelle, rettangoli e croci più velocemente di me; e chissà se anche lui, vedendo le formine sul tavolo, ripenserà ai venti, alle foto dei nonni, ai giochi e ai crocifissi di casa sua.

 

Lorenza Venerus

Blam

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