Sara Poma, intervista all’autrice di Figlie che ci racconta il dietro le quinte del podcast più ascoltato delle ultime settimane
Sara Poma, classe 1976, lavora da sempre nel mondo del digitale: prima per MTV Italia e Twitter, ora per Chora Media dove guida l’area dedicata ai brand. Il suo primo podcast autoprodotto è stato Carla, pubblicato nel 2020. Con questo progetto Poma ha raccontato in otto puntate la vita di sua nonna, Una ragazza del Novecento, a partire dal diario della donna, custodito come un prezioso cimelio di famiglia. Il suo secondo progetto è stato Prima, nato grazie alla collaborazione tra Spotify e Chora: sei puntate nelle quali si riscopre la vita travagliata di Maria Silvia Spolato, prima donna a fare coming out pubblico in una piazza italiana nel 1972. Le vicende legate a Spolato sono state poi riprese e ampliate in Il coraggio verrà, scritto da Poma e pubblicato dalla casa editrice Harper Collins nel gennaio 2023. Figlie (ne abbiamo parlato qui) è nato invece dalla collaborazione tra Chora Media e Rai Play Sound: racconta un percorso a ritroso nella memoria alla ricerca di Silvia, la madre desaparecida di Sofia. Memoria, podcasting, formazione e segreti del mestiere: Sara Poma ci ha parlato di questo e tanto altro nell’intervista per Rivista Blam!
Buona lettura!
Come ti sei avvicinata al mondo dei podcast e come hai capito che poteva diventare il tuo lavoro?
Mi sono avvicinata da ascoltatrice prima di tutto. Nel 2017 mi sono rotta un braccio, il che mi ha portato a dover girare la città in autobus. In questi lunghi tratti ho iniziato ad ascoltare una cosa che mi aveva consigliato un’amica: Serial, un podcast americano del 2015 molto famoso e che ha cambiato un po’ il genere, diciamo così.
Quindi hai iniziato ad ascoltare podcast per la prima volta in inglese, anche perchè in Italia, proprio in quel periodo, il grande boom di podcast e audiolibri non era ancora arrivato.
Sì, c’era poca roba. La maggior parte dei prodotti che ascoltavo era in lingua inglese. In Italia sarebbe uscito di lì a poco Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli. C’era davvero poco di disponibile, ma proprio da lì è nato un amore che non è mai finito. Dopo poco tempo mi è venuta voglia di provare a cimentarmi anche io e l’ho fatto aiutando Giulia Cavaliere, giornalista e amica: insieme abbiamo realizzato Romantic Italia, un podcast per storielibere.fm.
Qual è stato il primo progetto completamente tuo al quale ti sei dedicata?
Dopo aver collaborato con Giulia ho sentito il desiderio di fare qualcosa di mio. Nel frattempo era arrivata la pandemia del 2020 e in quel momento lì, approfittando del lockdown, ho deciso di riprendere in mano il quaderno di memorie di mia nonna Carla e di provare a raccontare la sua storia attraverso un podcast. Da Carla in poi si è innestato un processo che mi ha portata fino a oggi.
Se una persona adesso volesse fare del podcasting non solo un hobby ma un lavoro, c’è una formazione che consiglieresti in particolare? O basta essere solo molto motivati?
Sicuramente realizzare podcast è prima di tutto un mestiere di ascolto. Capita che magari qualcuno venga da noi (in Chora Media, ndr) dicendo “voglio fare un podcast” e poi magari scopri che non ne ha mai ascoltato uno. Quindi il mio primo consiglio è sicuramente quello di partire dall’ascolto e dalla passione, anche nello scoprire le tante narrazioni che sono possibili attraverso questo mezzo. Poi sicuramente iniziano ad esserci, soprattutto negli ultimi anni, dei percorsi utili per toccare con mano tutti i vari aspetti del processo di creazione di un podcast. Sicuramente quello che facciamo in Chora Academy è uno, ma non è l’unico in circolazione.
Anche perché sicuramente oltre al fatto di scrivere storie c’è anche tutto il comparto tecnico da considerare: audio, sound design, musiche.. per sviluppare un buon podcast c’è bisogno di questo.
Certo, ci sono tante tecniche e professioni legati a questo mondo. Fare podcast non significa solo usare la voce o diventare autori. Ci sono figure legali, di sound designer.. c’è veramente un mondo di professioni che si stanno creando e di cui questo grande mondo del podcasting ha continuamente bisogno.
Recentemente ci sono state le premiazioni del Pod– Italian Podcast Awards: cosa nei pensi dei progetti che hanno vinto questa seconda edizione?
Prima di tutto è confortante vedere che quello dei podcast in pochi anni è diventato un mondo così prolifico! Ci sono tantissime realtà e anche i progetti indipendenti iniziano ad avere una voce forte, ad essere ascoltati da un pubblico sempre più ampio. È bello sicuramente vedere che c’è una comunità che si sta creando e che almeno al momento è molto accogliente: non ci sono invidie, e soprattutto ci si inizia a rendere conto che questo mezzo sta diventando importante per tante persone.
Ma parliamo del tuo ultimo progetto, Figlie. Come hai capito che la storia di Silvia e Sofia andava raccontata?
Lo racconto nel primo episodio, è stata un po’ una rivelazione immediata nel momento in cui Sofia, che è la protagonista della storia, mi ha mandato quella email (se ne parla all’interno della prima puntata, ndr): conteneva già un’urgenza di racconto che in qualche modo assomigliava a quella che avevo io. Già il modo in cui Sofia ha raccontato la sua storia e il modo in cui questa si intrecciava a una vicenda più grande mi ha fatto capire subito che era forse quello che stavo cercando e non lo sapevo. Sono stata molto fortunata che lei si sia rivolta a me.
In Figlie a un certo punto la tua storia personale si allontana sempre di più, diventa sempre più piccola per lasciare spazio a quella di Sofia e Silvia.
Sì, in qualche modo era inevitabile. Quello che è successo a loro guadagna in poco tempo uno spazio enorme: la Storia con la S maiuscola le ha inghiottite e poi è stato inevitabile che inghiottisse anche la mia prospettiva. A maggior ragione poi quando siamo arrivate in Argentina e abbiamo iniziato a raccogliere testimonianze. Era giusto lasciare spazio e voce a tutte quelle persone che hanno voluto ricordare la storia di Silvia.
A questo proposito volevo chiederti quanto ne sapessi tu di questo periodo storico. In Italia spesso e volentieri a scuola non ci si arriva nemmeno. Le persone scoprono la dittatura argentina e la vicenda dei desaparecidos più avanti e spesso solo se ci si appassionano in qualche modo.
Noi sapevamo molto poco, avevo una infarinatura leggermente più ampia sulla storia del Cile, ma solo perché se n’è parlato un po’ di più, penso a Santiago, Italia il documentario di Nanni Moretti uscito qualche anno fa. Sulla storia dell’Argentina avevo visto i film di Marco Bechis qualche anno fa ma non è che sapessi poi molto. È stato sicuramente interessante per me cominciare questa esplorazione e andare un po’ più a fondo in una storia che è sicuramente anche piena di mistero, condizionata dal lavoro strategico che è stato fatto dalla dittatura argentina per tenere tutto sotto silenzio. Sono felice che siamo riusciti a farla arrivare anche qui in Italia. Io stessa per prima avevo bisogno di conoscerla e di indagarla.
Ad un certo punto nel podcast tu e Sofia partite per l’Argentina: è l’inizio di una nuova fase del vostro percorso. Si tratta di raccogliere testimonianze, entrare in contatto con gli uomini e le donne che Silvia ha conosciuto e con le quali ha militato. Com’è stato affrontare tutto questo, per voi e per gli amici o i familiari di Sofia?
Abbiamo fatto un grande lavoro di pre-produzione in cui Sofia ha cercato e trovato le persone e ha raccontato loro che tipo di lavoro avremo fatto, che tipo di informazioni stavamo cercando. Quando siamo arrivate in Argentina le persone erano già preparate psicologicamente ad aprire delle scatole particolarmente dolorose delle loro memorie.
C’è un elemento, un tratto, che avrei scoperto dopo aver conosciuto Sofia, ed è tipicamente argentino: quello di saper navigare con coraggio nel dolore e trasformarlo anche nel giro di pochissimi secondi in una risata, senza però sminuire quello che si è detto cinque minuti prima. Sono contenta che sia venuto fuori nelle testimonianze questo modo tipicamente argentino di affrontare la vita.
Figlie a livello strutturale e stilistico è molto particolare. Mentre Carla o Prima mantengono uno scheletro più legato alla tradizione del podcast narrativo, nel tuo nuovo progetto le cose cambiano. In Figlie convivono intervista, lavoro sul campo, raccolta di testimonianze, approfondimenti storici… è un lavoro incredibile. Come siete riuscite a far rientrare tutto, alla fine, in una dimensione narrativa?
Eh, è stato abbastanza complesso. La chiave che io ho trovato per far entrare l’elemento storico all’interno delle puntate è stato quello di trattarlo attraverso la lente personale. Per esempio, all’interno del primo episodio ho provato a immaginare, a raccontare il grandissimo caos del Novecento argentino come se lo stesse guardando Silvia prima con i suoi occhi di bambina, poi ragazza, e infine donna adulta. Nel secondo episodio in particolare ho dato voce a una persona che in qualche modo rappresentava un ruolo istituzionale ma che comunque poteva condividere una storia personale: si tratta dell’allora vice console Enrico Calamai. Per me in generale è la lente personale la leva che mette insieme tutto.
Che poi, il racconto personale è un po’ la cifra distintiva dei tuoi progetti. Non hai mai paura che diventino troppo personali? Che questo coinvolgimento emotivo molto forte sia da una parte una cosa positiva, perché ti permette di andare a fondo, di trovare una chiave di lettura, dall’altra rischia di essere troppo da sostenere?
Sicuramente lo è stato in passato, ma ormai penso di avere le spalle abbastanza larghe, e soprattutto questo elemento a me serve per creare anche un senso di empatia in chi ascolta o in chi legge. L’esperienza che porto di solito è sufficientemente comune: penso che tante persone ci si possano riconoscere. Sicuramente potrà avere un limite nella mia produzione editoriale perché non so se sarò mai capace a raccontare una vicenda verso la quale non sento un legame personale: dovrò aspettare che arrivi la prossima storia a pungermi direttamente sul vivo.
A cura di Alessia Cito