Emanuela Cocco ci racconta in 10 punti il suo libro Trofeo, una novella sulla violenza e sulla parola che diventa presagio
Quando Chiara Valerio ha annunciato che Più libri più liberi 2023, l’evento letterario dedicato alla piccola e media editoria, avrebbe omaggiato Giulia Cecchettin, ennesima vittima di femminicidio, lo ha fatto con queste parole: «Le fiere e i festival, i libri stanno nel mondo, in mezzo alle persone, e servono nel mondo. Noi parliamo mentre Giulia è stata ammazzata. Ma siamo qui a parlare perché siamo certi che leggere fornisca le parole. E più parole si hanno, meno mani si alzano». Affermazione, questa di Chiara Valerio, che abbiamo ritrovato anche in Trofeo, il nuovo libro di Emanuela Cocco, edito da Zona42 lo scorso novembre. È proprio attorno alla parola che Trofeo si muove: «La parola è illusione», ma è anche «presagio», «amore», «disincanto», «irrumatio»; e la parola è il modo in cui abitiamo il mondo; serve ad arginare la violenza, serve a dire io ci sono. Le vittime di questo Lui, di cui non conosciamo l’identità (e poco importa), si riappropriano perciò della voce, persa con la morte, attraverso gli oggetti che le appartenevano e che per il Lui sono cimeli da portare a casa e nascondere, sono trofei delle donne che ha ucciso. Lo stesso accade con la gonna indossata dall’ultima vittima. È proprio questa a raccontarci, insieme agli altri feticci, le ultime ore di vita, i desideri, le aspirazioni, i ricordi delle vittime alle quali sono appartenuti.
Trofeo di Emanuela Cocco: la trama del libro
La trama del nuovo libro di Emanuela Cocco può riassumersi così: una donna compra una gonna per un’occasione: l’appuntamento galante con un uomo. Sarà l’ultima volta che la donna indosserà quella gonna. L’uomo, non solo la uccide, ma si prende anche la gonna come feticcio, come trofeo da tenere a casa. Quando Gonna arriva a casa dell’uomo, conosce gli altri trofei nascosti (fermagli, ciocche di capelli, anelli), insieme troveranno il modo di non tacere più. Quello di Emanuela Cocco è un romanzo breve o, meglio, una novella; una novella su una violenza, che è tante violenze, e su come le cose che ci appartengono conservino la traccia di ciò che eravamo.
A raccontarci in 10 punti le suggestioni e le immagini che hanno dato vita a Trofeo è la stessa autrice, Emanuela Cocco.
Trofeo di Emanuela Cocco raccontato da Emanuela Cocco in 10 punti
1 – Whatever that hurts
I Tiamat: una possibile colonna sonora della novella, ma anche quello che spesso mi interessa raccontare. Tutto quello che ci fa male, perché ci fa male, perché proprio a noi. Il male è lì dove veniamo messi alla prova, non è un bel momento quando lo incontriamo, l’idea che il dolore dia il suo frutto, che ci sia una sorta di risarcimento, è una cazzata e lo sappiamo. Non è un bel momento ma è lì dove incontriamo noi stessi, dove scopriamo di cosa siamo fatti noi, e il mondo in cui viviamo. Whatever that hurts è uno dei pezzi più belli di Wildhoney dei Tiamat, e in questa novella ho seguito la loro ricetta: semi di claustrofobia e sangue (e feticci) mescolati.
2 – Occhi senza volto
Un personaggio di Trofeo è un omaggio a questo film di Franju che è un mio feticcio cinematografico da quando lo vidi da bambina. Una ragazza rimane sfregiata in un incidente, un padre, un chirurgo pazzo, ruba la pelle alle vittime per provare a restituirle un volto. Ma lui vuole bene davvero alla figlia? No, lei è solo la sua cavia. Dopo uno degli interventi, quando lei si specchia ed è di nuovo presentabile quasi non si riconosce, dice che il volto riflesso nello specchio appartiene a qualcuno che le somiglia ma che viene da molto, molto lontano. Io ho cominciato a scrivere probabilmente perché mi sento sempre così. Per capire chi siamo veramente dobbiamo vivere, non abbiamo scampo.
3 – Stilnovo
Da ragazzina ero innamorata del mio professore di letteratura italiana. Studiare era un piacere, così, solo per quel motivo, ho prestato attenzione a cose sorprendenti, tipo una poesia di Guido Cavalcanti in cui gli oggetti si animano e scrivono una lettera alla donna amata dal loro proprietario, per raccontarle quanto lui soffra. La poesia è finita qui dentro, ma ce ne sono tante altre dentro, perché c’è la percezione della separazione, dello smembramento della persona che è in atto quando si ama, quando si desidera, quando si vive immaginando e ricreando il proprio oggetto. Una pratica che in letteratura è diventata oggetto di storie romantiche, che però non saprei scrivere, e di storie piene di terrore.
4 – Presagio
La letteratura è presagio, la parola è presagio oppure, forse, non ho voglia di ascoltarla. Non mi interessano i ritratti, solo gli specchi. In Trofeo lo specchio in cui il carnefice della storia cerca di riconoscersi è deformato, esiste solo nella sua mente, a un certo punto si rompe. La letteratura dell’orrore mi pare rappresentare da sempre il presagio di questa frantumazione che può cogliere ognuno di noi, in qualsiasi momento. È la crepa sottile di cui ha scritto Sofocle, è l’ora di piombo di Emily Dickinson.
5 – Samuel Beckett
L’ultima frase del romanzo è sua, è il verso (e il titolo) di una sua poesia. E il terrore del nostro stare al mondo, è suo, e il racconto raggelante della possibile estinzione delle parole, è suo. E tante altre cose di cui essergli debitrice è sempre troppo poco.
6 – In posa
La rappresentazione della violenza è un discorso sulla violenza. Non tutti i discorsi sulla violenza sono accettabili o condivisibili, ma escludere la violenza da ciò che è rappresentabile non porta all’eliminazione della violenza, al contrario. È un atteggiamento idiota e ipocrita, in Trofeo cerco di non essere ipocrita. Nell storia un serial killer mette in posa la sua vittima e la circonda dei trofei rubati ad altre vittime. Poi inizia a farle del male. Eppure la messa in scena più violenta non è quella che accade nella stanza, ma quella che muove gli oggetti nella sua mente. È questo tipo di violenza quella che voglio prendere in considerazione quando scrivo. C’è una messa in scena dietro ai fatti, dietro alle azioni. In posa (Cronopio) è anche un saggio di Pierandra Amato pubblico che riflette sulle immagini del carcere irakeno di Abu Ghraib, che ritraggono i soldati americani mentre, con il sorriso sulle labbra, in una posa che suggerisce una divertente vacanza, torturano i prigionieri. Un breve saggio geniale che ci dice che a volte l’allestimento, il ritrarre la performance non è un elemento accessorio della violenza ma la sua ragione d’essere.
7 – Peeping Tom
È un film diretto da Michael Powell, un film con Carl Boehm che, anche lui uno dei miei principali feticci cinematografici. Il protagonista del film uccide le sue vittime e intanto le riprende, affascinato ed eccitato dalle espressioni di terrore che si accendono sui loro visi. Perché lo fa? Perché anche lui è terrorizzato a morte. Da cosa? Non lo sappiamo con certezza, certo il padre, le sue folli pratiche educative, ma da dove nasce questa paura che divora tutto? Non lo sappiamo, per questo scriviamo e leggiamo storie dell’orrore.
8 – Gioco
Quando inizio a scrivere penso sempre: va bene è il mio gioco, le mie regole, ma il lettore deve venire con me altrimenti non mi diverto per niente, non mi piace giocare da sola. Vale anche per le storie in cui si soffre almeno un po’.
9 – Trofeo
Tutto può essere un trofeo per un serial killer. Un oggetto ma anche una parte del corpo. Tutto può servire allo scopo. La cosa importante non è l’oggetto ma il suo potere fantasmatico, la capacità dell’oggetto di diventare superficie sulla quale proiettare fantasie, desideri, incubi. Funziona un po’ così anche quando scriviamo e andiamo a caccia di idee.
10 – Einstürzende Neubauten
Loro entrano a pieno titolo nella storia, la storia suona come fanno le cose spezzate, le cose (e gli edifici) che crollano. A pieno titolo in questa storia e in quella che sto scrivendo per Wojtek, di cui Trofeo è uno spin-off.
A cura di Emanuela Cocco e Valeria Zangaro