Sibilla Aleramo: «Il matrimonio era un’istituzione sbagliata. Ma ho dovuto cedere», intervista impossibile
Animo ondoso e penna controcorrente Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccia, fu poetessa di sé stessa e di tutte le donne dell’epoca. Una testimonianza diretta, pervicace tanto da disturbare le idee e pizzicare con versi arguti la morale e le convinzioni dell’epoca rendendosi bersaglio di critiche e disappunti.
Abbiamo immaginato di dialogare con lei. Ecco la nostra intervista.
Signora Aleramo, la ringrazio per aver deciso di incontrarci oggi per questa intervista. Come ben sa, i temi che si possono affrontare sono innumerevoli. Non tutti conoscono la sua vita, ci vuole raccontare quali erano i suoi rapporti familiari?
«È difficile dover raccontare la mia vita in poche parole. Posso provare a partire dalle basi, un po’ disfunzionali. Nella società, così come nella mia famiglia i ruoli sociali sono sempre stati rispettati con una certa rigidità. L’idea di autorità si concentrava nella persona paterna. E quando qualcosa non funziona appariva responsabile la mamma, che reclinava il capo come se fosse colpita all’improvviso da una grande stanchezza, o sorrideva, d’un certo sorriso che non potevo sostenere perché deformava la bella bocca rassegnata. C’erano volte in cui mio padre prorompeva in una di quelle crisi di collera che ci facevan tremar tutti e mi piombavano in uno stato d’angoscia, rapido ma indicibile e la mamma reprimeva sempre le lagrime, si rifugiava in camera. Dinanzi al babbo, aveva un’espressione umiliata, leggermente sbigottita. Ma io lo avevo sempre visto come un eroe. Spesso indossavo un abbigliamento ibrido, una giacchetta a taglio diritto, con tanti taschini per l’orologio, la matita, il taccuino, sopra una gonnella corta. Sulla fronte mi si anellavano i capelli, tagliati corti, dando alla fisionomia un’aria di ragazzo. Avevo sacrificato la mia bella treccia dai riflessi dorati cedendo alla suggestione del babbo».
Da ciò che sappiamo, è sempre stata avversa al matrimonio. Avrebbe mai pensato di maritarsi?
«Ogni volta che me lo si chiedeva tranquilla io rispondevo che non mi sarei mai maritata, che non sarei stata felice se non continuando la mia vita di lavoro libero, e che, del resto, tutte le ragazze avrebbero dovuto fare come me. Il matrimonio era un’istituzione sbagliata. Ma ho dovuto cedere. Ricordo perfettamente quando un mattino fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale; due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire in urlo, quanto l’uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano. Udii un passo fuggire e sbattersi l’uscio. Barcollando, mi rifugiai nel piccolo laboratorio in fondo allo studio. Tentavo di ricompormi, mentre mi sentivo mancare le forze, ma un sospetto oscuro mi si affacciò. Così la mia persona piegava al volere del marito».
Sua madre le è stata accanto? Qual era il vostro rapporto?
«Avevo accanto a me l’immagine di mia madre costantemente; di mia madre negli anni lontani alla mia prima infanzia: sentivo nell’anima il calore di quell’affetto che doveva essersi riversato su me con la stessa forza con cui il mio cuore circondava amorosamente l’atteso. Se solo avessi avuto qualche anno di più, mentre ella era in possesso di tutta la sua ragione, e ancora in lei la vita reclamava i suoi diritti contro la fatale seduzione del sacrificio! Avessi potuto sorprenderla quella notte, sentire dalla sua bocca la domanda: “Che devo fare, figlia mia?” e rispondere anche a nome dei miei fratelli: “Và mamma, và!”. Si questo le avrei risposto; le avrei detto: “Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta soprattutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando”».
Anche lei è diventata madre. Come ha vissuto la sua maternità?
«In me la madre non si integrava con la donna: e le gioie e le pene purissime in essenza che mi venivano da quella cosa palpitante e rosea, contrastavano con un’instabilità, un’alterazione di languori e di esaltamenti, di desideri e di sconforti, di cui non conoscevo l’origine e che mi facevano giudicare da me stessa un essere squilibrato e incompleto. Il mio ideale di perfezionamento interiore crollava dinanzi alla realtà di questo fatto: una cosa sola, era talmente viva in me, viva e formidabile: il legame della maternità».
Tuttavia, lei ha creato un grande scandalo. Ha abbandonato suo figlio per poter inseguire l’ideale femminista.
«Imploravo in cuore: “Perdono, perdono, figlio”. E a lungo restavo lì, china, senza parole attendendo per il piccolo essere il sonno pietoso, per me l’atonia che segue la crisi. Ricordo ancora ciò che gli dissi. “È già l’ora; sii buono, voglimi bene, io sarò sempre la tua mamma…” e lo baciai senza poter versare una lagrima, vacillando; e ascoltai la vocina sonnolenta che diceva “Sì, sempre bene. Manda il nonno a prendermi, mamma. Star con te…”. Si voltò verso il muro tranquillo. Allora, allora sentii che non sarei tornata, sentii che una forza fuori di me mi reggeva, e che andavo incontro a un destino nuovo, e che tutto il dolore che mi attendeva non avrebbe superato quel dolore. Un giorno avrà vent’anni. Partirà, allora, alla ventura, a cercare sua madre? O avrà già un’altra immagine femminile in cuore? Non sentirà allora che le mie braccia si tenderanno a lui nella lontananza, e che lo chiamerò, lo chiamerò per nome? O io forse non sarò più. Non potrò più raccontagli la mia vita, la storia della mia anima e dirgli che l’ho atteso per tanto tempo! Ed è per questo che scrissi. Le mie parole lo raggiungeranno. La mia maternità s’era dunque chiusa veramente con quell’ultimo bacio».
La sua fuga, se così vogliamo chiamarla, è stata scaturita da qualcosa. Lei molto spesso parla del ruolo della donna e sappiamo che, erano tante le donne che durante la sua epoca hanno subito violenza domestica. È stato anche il suo caso?
«Ad oggi rivedo me stessa gettata a terra, allontanata col piede come un oggetto immondo e risento un flutto di parole infami, liquido e bollente come piombo fuso. Il mio corpo divenne null’altro che un povero involucro inanimato, mi sentii proporre una simulazione di suicidio. “Bisogna che io ti faccia morire di mia mano; ma non voglio andare in galera: devo far credere che ti sei data la morte da te stessa”. E sebbene ebbi una crisi in cui tutti mi credevano una bestia immonda, la vita esterna doveva apparire immutata. Dovevo uscire al fianco di mio marito e talvolta fra noi era il bimbo; il dolce fiore sorrideva tra due che si odiavano».
Cosa pensava in quei momenti?
«C’erano delle domande che mi ponevo spesso. Perché non avrei potuto essere felice per un istante? Ero sola, disarmata, assennata e anelante. E un’ira folle prendeva contro me stessa, che cadeva subito per lasciar posto a una vera menzogna profonda. Io avevo rinunciato a me stessa».
Rinunciare a sé stessi implica sempre un atto di coraggio; eppure, si può dire la scrittura l’ha salvata.
«Ricordo che una volta scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al dolore se poteva divenire fecondo; affermavo di ascoltare strani fermenti nel mio intelletto, con il presagio di una lontana fioritura. Non mai in verità, avevo sentito di possedere una forza d’espressione così risoluta e una così acuta facoltà d’analisi».
Il femminismo è stato poi la base della sua vita di cui lei stessa ne è stata paladina. Come ha scoperto il fenomeno? Erano gli anni in cui si stava ampiamente sviluppando, vero?
«Era in uno scritto. La parola “femminismo”. E quando la vidi così, stampata, la parola dall’aspro suono mi pareva d’un tratto acquisire intera la sua significazione, designarmi veramente un ideale nuovo. Avevo sentito di toccare la soglia della mia verità, sentito ch’ero per svelare a me stessa il segreto del mio lungo, tragico, e sterile affanno».
Ultima domanda. Cosa direbbe alle donne oggi, se potesse tornare indietro?
Spetta alla donna rivendicare sé stessa, ch’ella sola può rivelare l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di dignità umana.
Le citazioni contenute in questa intervista sono tratte da:
- Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli, 2012
A cura di Cristina Stabile