Ritratti di scrittori: Richard Yates, chi era? Scoprilo in 5 parole
Richard Yates è stato uno scrittore americano del secolo scorso: nato nello stato di New York nel 1926, morì in Alabama nel 1992, per delle complicazioni mediche. Come era già stato per Tenessee Williams, prima di lui, o ancora F.S. Fitzgerald – due scrittori statunitensi che amava visceralmente – condusse una vita dissipata e infelice, segnata dalla dipendenza dall’alcool e da una serie di matrimoni falliti. Si occupò di letteratura, giornalismo, short stories; fu, successivamente, maestro per grandi scrittori – come Micheal Chabon e Richard Ford. Oggi vale la pena riscoprirlo, non fosse altro che per ritrovare, tra le pagine dei suoi romanzi, quel senso di disillusione e ironia che segna (anche) il nostro tempo. Glielo dobbiamo: soprattutto perché per troppi anni è stato confinato nell’oblio.
Richard Yates: chi era in 5 parole
Oblio
La prima parola con cui inizieremo, quindi, sarà proprio questa: oblio. Oblio editoriale, chiaramente. Yates, per moltissimi anni, è rimasto fuori catalogo negli stessi Stati Uniti; è arrivato in Italia solo nel 1977 e non è passato molto tempo da quando minimum fax – la casa editrice che si occupa di farlo conoscere nella nostra nazione – ne ha pubblicato il penultimo romanzo. La fama, in realtà, non è mai appartenuta allo scrittore, neanche in vita: i suoi romanzi non oltrepassarono le 12.000 copie vendute e non a caso Esquire di lui disse che fu «uno dei grandi scrittori meno famosi d’America». Ci sarebbe da chiedersi perché, soprattutto una volta averlo letto: sembra assurdo che uno scrittore tanto chirurgico nel raccontare l’infelicità, la miseria, il fallimento, la solitudine urbana, i cambiamenti degli anni ’50, sia stato così sottovalutato. Yates riuscì, straordinariamente, a tratteggiare un quadro lucidissimo del suo tempo proprio mentre lo stava vivendo. Ma non era quello che ci si aspettava da lui, probabilmente; all’epoca in cui Revolutionary Road – il suo esordio letterario – gareggiava per il National Book Award, a vincere fu un romanzo di tutt’altro genere, forse anche un po’ anacronistico. Fortunatamente, ora, l’oblio sembra essere sfumato, e il fatto che da questo romanzo sia stato tratto un film con Leonardo di Caprio e Kate Winslet ne è la prova più esibita.
Dissipazione
Bere alcool, nel periodo in cui ha vissuto Yates, non era niente di particolarmente sconvolgente. Era finito il periodo del proibizionismo e, come è noto, una bottiglia di scotch può stordire a sufficienza chi ha bisogno di dimenticare o evadere. Yates rientra a pieno titolo tra questi ultimi. La sua fu una vita fondamentalmente infelice, come dicevamo in apertura; e non solo perché non raggiunse mai il successo che ogni scrittore spera per sé, ma anche perché fu sempre circondato da persone deluse e incattivite. Nell’incipit di Anna Karenina c’è una frase bellissima che dice: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». Forse non ci sarebbe migliore definizione per descrivere la situazione di Richard Yates: i suoi genitori si lasciarono poco dopo la sua nascita, quando il padre abbandonò la famiglia e i bambini piccoli, e sua madre beveva per soffocare la tristezza. Il primo matrimonio di Yates non funzionò, e così fu anche per il secondo: in un qualche modo, i fallimenti si susseguivano uno dopo l’altro. Yates era testardo, irascibile; aveva una tendenza alla depressione e una fortissima dipendenza da alcool e fumo. A un certo punto della sua vita si ammalò ai polmoni, ma neanche questo fu un motivo sufficiente per convincerlo a smettere di trascurarsi. Quando la morte sopraggiunse, infatti, ormai il suo corpo era consumato – e della sua vita non rimaneva che un mucchio di cenere.
Solitudine
Chi vive così non può che sperimentare la solitudine, intesa non tanto come isolamento quanto, piuttosto, come mancanza di intimità. Non a caso, Yates avrebbe scritto un’intera raccolta di racconti dal titolo «Undici solitudini», e il tema è centrale in tutta la sua produzione letteraria. I personaggi di Yates sono sempre incastrati in un’esperienza priva di comunicazione, incapace di andare al di là di se stessa. Sono personaggi imprigionati nel proprio dramma, in una farsa tragicomica di rispettabilità. Non sanno chi sono, forse non vogliono neanche scoprirlo; si circondano di moltissime persone, ma le conversazioni che intrattengono con loro sono, alla fine dei conti, vuote e retoriche. Sembrano amarsi, ma in realtà non amano che se stessi – e spesso questo amore può essere anche distruttivo, soffocante, instabile. La loro solitudine è quella dei quadri di Edward Hopper, quella urbana e suburbana degli anni ’50. Ma è anche quella di Yates, che quando scriveva, scriveva soprattutto di sé.
Passività
Il lettore di Easter Parade – uno dei romanzi più acclamati dalla critica, tra quelli che Yates ha scritto – non potrà fare a meno di notare che, in questo libro, non succede poi molto. E forse c’era anche da aspettarselo, date le premesse: «Né l’una né l’altra delle sorelle Grimes avrebbe avuto una vita felice, e a ripensarci si aveva sempre l’impressione che i guai fossero cominciati con il divorzio dei loro genitori». Easter Parade è il racconto di una progressiva sconfitta, di un’irrisolvibile incapacità di agire. Le due sorelle che fanno da protagoniste al racconto sono come invischiate in una routine vuota e inconcludente, e non sembrano essere in grado di spiccare “il grande salto” che, forse, potrebbe salvarle: entrambe scrivono senza portare a termine i propri progetti, entrambe rimangono sole. E arrivati alla fine del libro è quasi impossibile non avvertire un miscuglio tra insofferenza, fastidio e disperazione, perché la vita tratteggiata da Yates appare come insidiata dal morbo dell’inerzia. Niente di molto diverso da Revolutionary Road, dove – capitolo dopo capitolo – assistiamo alla costruzione illusoria di un progetto di riscatto esistenziale che non verrà portato a termine e che si rivelerà, oltretutto, una menzogna costruita ad arte per rendere quantomeno sopportabile una vita ormai palesemente vacua e insoddisfacente.
Fallimento
Yates è, quindi, l’autore del fallimento, e non è un caso che il suo scrittore preferito fosse F.S. Fitzgerald, né che ammirasse Il grande Gatsby e Madame Bovary. Entrambi sono romanzi che esemplificano il crollo delle aspettative, la disillusione, il fallimento di un grande sogno. E per Fitzgerald – come è stato anche per Yates – il grande sogno in questione era quello americano: quel grande salto a cui accennavamo prima. Se Fitzgerald aveva dato vita, attraverso i suoi romanzi, a una serie di istantanee del crollo – nel frangente stesso in cui esso si consumava – Yates sembra avere raccolto le macerie di ciò che è restato. I suoi romanzi sono racconti di cenere, di polvere che sfugge via; sono racconti di forte disillusione, drammatici e ironici allo stesso tempo. Racchiudono parabole esistenziali tragiche, segnate dal fallimento di matrimoni e aspirazioni, imprigionate nella finzione, nell’inappartenenza. Il titolo di Revolutionary Road suona, da questa prospettiva, quasi beffardo – essendo dedicato a un romanzo in cui nessuna rivoluzione è possibile – e difatti Yates scrisse, a questo proposito, che aveva «voluto che il titolo lasciasse intendere che la via rivoluzionaria del 1776 […] il nostro migliore e più intrepido spirito rivoluzionario, negli anni Cinquanta è giunto a qualcosa di molto simile a un vicolo cieco». Non ci sono più scappatoie, quindi, non c’è più – ormai – alcun altro sogno da perseguire: c’è, invece, questa tragica e misera vista, questa farsesca commedia del fallimento – che tuttavia non si può fare a meno di raccontare.
Richard Yates: i libri da leggere per approcciare a questo scrittore
- Revolutionary Road, 1961. In italiano pubblicato con lo stesso titolo da minimum fax (romanzo)
- Eleven Kinds of Loneliness (racconti, 1962)
- Undici solitudini, minimum fax
- Easter Parade (1976). In italiano con lo stesso titolo, pubblicato da minimum fax (romanzo)
a cura di Rebecca Molea