Paolo Zardi: cosa c’è oltre lo scrittore, oltre i libri? Intervista
La sua biografia ufficiale dice che è ingegnere, che è nato nel 1970 ed è un padovano doc. Ha esordito con la narrazione breve, e ha pubblicato con case editrici del calibro di Feltrinelli, Alet, Neo; il suo ultimo romanzo, L’invenzione degli animali, è uscito nel 2019 per Chiarelettere. Nel 2015 con XXI secolo (Neo) è stato tra i dodici finalisti del premio Strega. Inoltre, è stato l’unico autore italiano a essere stato tradotto e pubblicato dalla rivista Lunch Ticket. Questo è il Paolo Zardi scrittore, a noi invece interessava conoscere l’uomo che si nasconde dietro le sue storie. Dall’intervista che abbiamo realizzato per voi ne è emersa un’immagine inedita e straordinaria. Non possiamo che augurarvi una buona lettura.
Ingegnere, scrittore, chi è davvero Paolo Zardi e come si concilia la tua professione di ingegnere con quella di scrittore?
In un saggio che sto leggendo in questi giorni, Menti tribali di Jonathan Haidt, viene riportato uno studio di qualche anno fa, il cui obiettivo era quello di definire il differente modo con il quale gli occidentali da un lato, e il resto del mondo dall’altro, guardano a se stessi. È stato quindi chiesto, a due gruppi di soggetti appartenenti a emisferi opposti, di scrivere venti frasi che iniziavano con “Io sono…”.
Gli occidentali hanno scritto cose tipo “Io sono appassionato di musica” oppure “Io sono felice” o, ancora “Io sono una persona ottimista”; gli altri, invece, frasi tipo: “Io sono un padre”, “Io sono un buon marito”, “Io sono impiegato in una grande azienda”.
La differenza è sottile ma importante: noi occidentali tendiamo a vedere le parti che compongono il nostro mondo, mentre gli altri, ad esempio i cinesi e gli indiani, sono interessati alle relazioni che uniscono un essere umano alla società in cui vive.
E per quanto la cosa non mi faccia particolarmente piacere, devo ammettere che il mio modo di vedermi è quello tipico di un occidentale. Forse per questo trovo che entrambe le definizioni – ingegnere e scrittore – nel loro tentativo di ricondurmi a una qualche categoria generale, colgano solo una parte di ciò che sono: rappresentano il mio lavoro e la mia principale passione, ma sono poco più che etichette sopra un vaso di marmellata. Con un po’ di retorica, posso dire che io sono un essere umano, che lavora, scrive, vive, ha relazioni, e che tutto questo avviene contemporaneamente. Non ci sono grandi distinzioni tra l’essere umano che risolve un problema di informatica e quello che cerca di chiudere un capitolo; sono messe in gioco qualità diverse, ma la sostanza di fondo è la stessa.
Se però ci fermiamo agli aspetti più pratici, posso dire che l’ingegnere mantiene lo scrittore, e che lo scrittore rende più bella la vita dell’ingegnere; che trasportando l’approccio che uso nel lavoro alla scrittura, posso contare su una discreta organizzazione del mio tempo, e una certa progettualità; e che quando al lavoro bisogna scrivere qualcosa, chissà perché chiedono di farlo sempre a me.
Se dovessi descriverti con tre romanzi, quali sarebbero?
Ho amato molti romanzi, per motivi sempre diversi, ma dovendo sceglierne tre che, al momento della lettura, sentivo che stavano parlando proprio di me, il primo sarebbe senza dubbio L’insostenibile leggerezza dell’essere. Avevo sedici anni e da poco avevo iniziato a essere impegnato in una relazione sentimentale – avevo la ragazza, insomma – e non avevo punti di riferimento; le complicate storie di Tomas, Sabina, Tereza e Franz, e la rappresentazione dei loro desideri così conflittuali mi fornirono le giuste coordinate per capire un mondo che fino a quel momento non potevo dire di conoscere realmente.
Anni dopo, qualche mese prima che finisse il ventesimo secolo, passai la mattina di Ferragosto a prendere il sole nella terrazza della piscina Columbus, ad Abano, leggendo, o cercando di leggere, Il processo di Kafka, libro che avevo già letto e amato a tredici anni, quando stavo entrando nell’età adulta. La grandezza dei romanzi, e di tutte le opere d’arte in generale, risiede nel fatto che metà del significato lo mette il lettore; e dal momento che i lettori sono esseri umani sottoposti a continui cambiamenti, anche i romanzi cambiano. E la storia di Joseph K., in quei sedici anni, era stata stravolta e, finalmente, parlava di me, della situazione in cui ero immerso in quei mesi.
Il terzo romanzo è Pastorale americana. Di Levov, il personaggio principale di questo libro gigantesco, ho l’ottimismo e una certa cecità verso il lato oscuro del mondo – una sorta di incapacità di considerarne la naturale tendenza alla catastrofe. Ed è anche un libro sulla paternità, seppure duramente messa alla prova, e io ero diventato padre da pochi mesi: anche Roth, nel maggio del 2004, parlava di me.
Hai la possibilità di fare un viaggio nel tuo passato e incontrare il Paolo tredicenne, cosa gli diresti?
Il Paolo tredicenne era un ragazzino curioso e sostanzialmente infelice; non si piaceva, faceva fatica a capire cosa avrebbe voluto dalla vita, e si sentiva piuttosto insicuro. Gli direi che la maggior parte delle cose che non funzionano in qualche modo si sistemano, e che altre cose che gli sembrano importanti in fondo non lo sono; lo ringrazierei per aver trovato la voglia e la pazienza di leggere tutti quei libri, in un periodo della vita in cui il cervello e il cuore sono ancora due organi malleabili. E gli direi anche che se potesse vedere, a distanza di anni, come sono diventate le persone verso le quali si sentiva in soggezione, avrebbe vissuto meglio la terza media.
Torniamo al presente, a questo periodo difficile che tutti noi stiamo attraversando. Che cosa fa Paolo Zardi in quarantena? Soprattutto, a quale futuro pensa, una volta che tutto questo sarà finito?
Il mio rapporto iniziale con la quarantena, e la minaccia di questo virus, è stato terribile: mi svegliavo nel cuore della notte in preda a un sottile terrore, che mi impediva di dormire. Durante il giorno, andava tutto bene, ma quando andavo a letto… Ma ho reagito. Ho smesso di leggere tutto quello che trovavo sull’argomento, convinto che tutto il mondo sia stato travolto, a un certo punto, da una “comunicazione tossica”. Ho ripreso a dormire. Quindi, lentamente, mi sono riaffacciato sul mondo, cercando di operare una buona selezione sulle fonti.
Al di là di queste considerazioni: non ho mai smesso di lavorare (facevo smart working anche prima), ho scritto poco, letto abbastanza, mangiato molto.
Scriverai di questo periodo o sei tra quelli che ritengono che non se ne debba parlare?
È presto per capire cosa scriverò in futuro. Ma è innegabile che, come dice lo scrittore Cristò, questa pandemia costringerà la letteratura contemporanea a occuparsi del ventunesimo secolo: gran parte del nostro immaginario fa riferimento ancora al secolo scorso. A volte mi capita di essere giurato in concorsi di racconti, e non manca mai qualcuno che sceglie di narrare una qualche vicenda legata alla Seconda Guerra Mondiale. Il nostro immaginario dovrà per forza di cose cambiare, perché dovrà inglobare anche questi mesi di paura, di riduzione dei diritti, di camion militari che sfilano con le bare dei morti. Sebbene la Seconda Guerra Mondiale sia un evento infinitamente più drammatico, è anche vero che la maggior parte delle persone coinvolte avevano avuto modo, purtroppo, di sperimentare situazioni analoghe a quella, giusto una ventina d’anni prima; nel 2020, invece, nessuno ha più alcuna memoria di pandemie, coprifuochi, limitazioni alla libertà personale. Non conta la dimensione del problema, ma come viene percepito, quali sono gli strumenti con i quali viene affrontato. Siamo cresciuti con la convinzione che certe cose appartenessero una volta per tutte al passato; ora invece ci scopriamo infinitamente più vulnerabili – e questo elemento (non la pandemia in sé) è un possibile argomento per chi scrive. La perdita di certezze, la fine di una tregua che era solo immaginata. Ciò che conta è che la letteratura sappia trasfigurare il fatto in sé, e colga gli aspetti universali. Alle distopie di questi anni, espressione di un presentimento diffuso ma non definito, ora potrebbe seguire una letteratura che con coraggio racconta il presente.
Facciamo un gioco:
Paolo Zardi è uno da
- Birra
- Vino
- Succo di frutta
Vino, senza alcun dubbio. Non ne bevo molto, e nella mia vita mi sono preso meno di dieci sbronze, ma mi piace. La birra è buona d’estate; da bambino ho bevuto ettolitri di succo di frutta. Ora vino, rosso – i miei preferiti sono quelli corposi, come alcuni vini piemontesi o della Valtellina.
…e ancora:
- Porchetta
- Pizza
- Sushi
Ho scoperto da poco il sushi – i miei figli, oltre a esserne ghiotti, sono bravissimi a prepararlo in casa – ma non sono particolarmente appassionato. La porchetta è buona, ma devo dire che, con poca fantasia, continuo a considerare la pizza il miglior alimento possibile. Essendo un animale onnivoro, non pongo limiti alle possibili combinazioni di ingredienti del tapping ma ovviamente ho le mie preferenze: cipolle, salamino piccante, gorgonzola, olive, acciughe, peperoncino, capperi. Gusti forti, come vedi, e un po’ rustici.
E ora torniamo seri per chiederti: Paolo Zardi perché scrive?
È la domanda più difficile, come probabilmente anche tu sai. Scrivo perché mi piace, perché mi fa stare bene. Non trovo nessun’altra vera motivazione oltre a questa. Ho scritto quando nessuno mi pubblicava, ho scritto quando stavo male e ho scritto quando ero in forma. Se per motivi contingenti capita che io non possa scrivere per qualche settimana, avverto una mancanza dolorosa, che si placa solo quando sono davanti al mio pc e posso finalmente dedicarmi a questa stramba passione. Ne Lo scrittore fantasma, Philip Roth fa dire a un suo personaggio quella che io considero la descrizione più precisa dell’attività di uno scrittore: “prendo le frasi e le giro. Questa è la mia vita. Scrivo una frase e la giro. Poi la guardo e la giro di nuovo. Poi vado a pranzo. Poi torno qui e scrivo un’altra frase. Poi prendo il tè e giro la frase nuova. Poi rileggo le due frasi e le giro tutt’e due. Poi mi sdraio sul sofà e rifletto. Poi mi alzo e le cancello e ricomincio da capo. E se interrompo questo trantran anche solo per un giorno vengo preso da una noia forsennata e mi sembra di avere perso tempo”.
Abbiamo pubblicato nello stesso numero de L’Ircocervo a novembre del 2019. Coincidenza ha voluto che in entrambi i racconti si parli di un messia. Credi in Dio? E se fosse un personaggio famoso a chi somiglierebbe?
C’è un episodio della mia vita di bambino piuttosto eloquente, in merito: avevo tre o quattro anni, andavo all’asilo dalle suore, e mentre pregavo con le mani giunte, speravo che nessuno si accorgesse che io, in realtà, non credevo in Dio. Non mi piace essere ateo, non lo considero un merito e tantomeno l’espressione di una qualche lucidità maggiore: semplicemente, non è successo che io avessi la fede. Pur riconoscendo la naturale inclinazione dell’essere umano, me compreso, verso la trascendenza, e pur riconoscendo la bellezza quasi struggente di sapere che le nostre vite sono in mano a un essere superiore che si prende cura di noi, proprio non ci riesco.
Se fosse un personaggio famoso, vorrei che assomigliasse a Woody Allen. Mi piacerebbe che avesse uno strepitoso senso dell’umorismo.
Alla luce dei temi affrontati nel tuo ultimo romanzo, L’invenzione degli animali, cosa significa essere umani oggi?
L’essere degli umani, delle creature appartenenti alla specie homo sapiens, significa possedere in uguale misura dubbi e certezze. Siamo in grado di analizzare il mondo che ci circonda con un insieme tutto sommato ampio di strumenti, e allo stesso tempo possiamo immaginare tutti i possibili futuri che ci aspettano, e sentirci impauriti, da questo, o rincuorati, spaventati o impazienti.
Oltre a questo, ci rendiamo conto che ciascuno di noi è quasi insignificante, nel determinare l’evoluzione del mondo, che esistono dinamiche sulle quali non possiamo intervenire perché fuori dal nostro controllo; allo stesso tempo, vediamo esempi di singole persone che con la sola forza delle parole hanno saputo incidere profondamente nel pensiero collettivo. Si tratta quindi di ritrovare la forza di immaginare un futuro migliore, e il coraggio di credere di poter fornire un contributo in questo senso. Per quanto mi riguarda, l’esempio migliore in questo momento è Greta Thunberg: ha tutti i limiti e tutta la potenza di un essere umano.
a cura di Valeria Zangaro
Foto di apertura di Massimo Pistore