Nessuna ragione al mondo: un romanzo di imposture e seconde occasioni. Intervista ad Alessio Cuffaro
Alessio Cuffaro è di origini palermitane ma da molti anni vive e lavora a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden da studente, prima, e da docente, poi. Con il suo primo romanzo, La distrazione di Dio edito nel 2016 da Autori Riuniti (casa editrice di cui è cofondatore) ha ottenuto il secondo posto al Premio Augusta 2017 ed è stato finalista al Premio Opera Prima del Master in Editoria della Fondazione Mondadori. Il 18 febbraio torna in libreria con il suo secondo romanzo dal titolo Nessuna ragione al mondo, edito da Elliot.
Nessuna ragione al mondo: la trama del libro di Alessio Cuffaro
Protagonista del romanzo è Andrea, un giornalista di cronache parlamentari. Sta guardando distrattamente la TV, quando vede passare la notizia: un libraio torinese è scomparso senza lasciare traccia. La foto che ritrae l’uomo sparito ha un sottopancia bizzarro: “Daniele Pagani, libraio scomparso”. Eppure Andrea è assolutamente sicuro che l’uomo in foto, benché invecchiato di una ventina d’anni, non può che essere Sergio, il suo ex migliore amico. Andrea si mette allora alla ricerca dei motivi di quella che è un’impostura a tutti gli effetti. Il progetto costringe il protagonista a fare i conti con un passato che riteneva archiviato. E invece, assieme alle dinamiche inerenti alla sua giovinezza, viene su anche tutto il resto: domande esistenziali e aspirazioni abbandonate che, a un certo punto, diventano insistenti e offrono al protagonista l’occasione di rivendicare finalmente per se stesso il diritto di vivere pienamente. Un romanzo sull’amicizia maschile. Un romanzo che indaga l’età di mezzo, quando si tirano le somme e ci si chiede se sia tutta qui la vita. Un romanzo di nostalgie e di seconde occasioni, perché come canta Brunori Sas: “Il bello è riuscire a rientrare in partita quando sembra finita”.
In merito ai dettagli su stile, curiosità e stesura di Nessuna ragione al mondo, ce ne parla direttamente Alessio Cuffaro in questa intervista.
Nessuna ragione al mondo prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto. Mi riferisco alla scomparsa di Giuseppe Marchetti, libraio torinese, avvenuta il 15 novembre del 2014. Perché la scomparsa di un uomo che non conoscevi personalmente ti ha colpito fino al punto da farne oggetto di narrazione?
Giuseppe era amico di molti miei amici. Una sera ho sentito alcuni di loro ragionare intorno alla sua scomparsa e mi è scattato qualcosa. Questa è forse la cosa più indecifrabile della scrittura: il momento in cui decidi che una storia è quella giusta, che lì c’è qualcosa che la tua penna deve indagare. Da lì in poi ho fatto in realtà di tutto per distanziarmi dalla storia vera: i fatti del mio libro accadono 4 anni prima, nel 2010, e la data è nella prima riga dell’incipit, proprio a indicare che la vicenda di Marchetti è solo una suggestione. Il romanzo racconta una storia del tutto diversa. Quello che ho capito solo dopo averlo scritto è che mi interessava ragionare intorno all’identità e alla reputazione, e a come la scomparsa le rimetta in discussione entrambe.
Pensando a elementi o a temi ricorrenti nelle opere degli autori, ho notato che in Nessuna ragione al mondo, come nel tuo primo romanzo, La distrazione di Dio (Autori Riuniti), è l’impostura, l’elemento che gioca un ruolo determinante nella narrazione. Per certi versi ho avuto come l’impressione che questa ne fosse quasi la protagonista occulta. Quale importanza le attribuisci rispetto ai rapporti umani e perché ti suscita questo fascino?
Credo che dipenda dal fatto che l’impostura è la forma più nobile di racconto. L’impostore non usa artefici retorici, non gioca con la lingua come facciamo noi scrittori nell’alveo confortevole delle nostre stanze, l’impostore mette in scena una narrazione con tutto se stesso, con il corpo con le parole e con i gesti, rischia l’intera posta. Se ci pensiamo è un’acrobazia incredibile. C’è poi una questione legata all’identità su cui il romanzo ragiona anche fuor di metafora: ci basta ciò che siamo? Vale la pena giocarsi una vita intera con un’identità sola? L’impostore rende palpabile una cosa che sappiamo benissimo e facciamo finta di non vedere: potremmo essere molto altro, potremmo vivere molto di più, se non in termini quantitativi, almeno in termini identitari. Ma abbiamo paura.
A un certo punto del romanzo Andrea, il protagonista, ripensa ai tempi della scuola e, riflettendo sulla sua amicizia adolescenziale con Sergio, dice: «Non ci si sceglieva per merito, stima o simpatia. Ci si radunava insieme per far fronte alla crescita» (p. 19). È anche così nella vita reale? Da adulti continuiamo a radunarci per far fronte alla crescita?
Da adulti ci proviamo: sul piano sentimentale, parentale, amicale, facciamo del nostro meglio, ma sono rapporti codificati da regole ben precise. Quando ci si sceglie da ragazzi invece lo si fa in maniera pura. Non si ha ancora alcuna idea di come funziona davvero il mondo, si sente una grande precarietà e incertezza, e si sceglie di affrontare tutto questo con qualcun altro, senza regole, come si sta schiena a schiena quando si è accerchiati. Quei legami lì possono anche rompersi poi da grandi, ma rimangono dentro come istanze psichiche. Ognuno di noi si porta dietro un ragazzino immaginario con cui stare schiena a schiena.
Nella nota al termine del romanzo racconti di aver iniziato a scrivere questa storia pochi mesi dopo la morte di tuo padre. Se non ricordo male anche il primo romanzo nacque in seguito a una scomparsa familiare. E allora ti chiedo: è il dolore a scrivere i versi?
No, non avevo avuto un lutto prima della scrittura de “La distrazione di Dio”, ma quel romanzo rispondeva in maniera allegorica a un dolore antico, sedimentato. Io credo che la buona scrittura nasca sempre dal disequilibrio, dal dolore, dalla fragilità. Difficile costruire un racconto attorno alle certezze, alla stabilità. Quelli sono attrezzi utili al saggista, e nemmeno a tutti i saggisti. La cosa importante è non riversare quel dolore e quella fragilità sul lettore. Il romanzo non è catarsi dell’autore, è invito al lettore ad affrontare insieme all’autore dei dubbi, con la promessa che la pagina non sarà così banale da pretendere di scioglierli.
Da insegnante di scrittura creativa, quando sei tu quello che si trova di fronte a una tastiera, senti il peso dei tuoi insegnamenti e in che misura ti curi delle regole narrative e dei consigli che offri ai tuoi studenti mentre scrivi?
Io adesso qui dovrei dirti che ci penso assiduamente, che sento la responsabilità di essere conseguente a ciò che insegno, ma non è vero. Non ci penso, sono cose che ho fatto mie da così tanti anni da sapere che le sto applicando, che non sto facendo errori grossolani. Mi godo il gesto della scrittura: scrivo in completa solitudine e isolamento, ascolto continuamente musica e mi aiuto con l’alcol. So che ci sarà tempo in fase di revisione, da sobrio, per fare le pulci alla pagina.
Andrea, il protagonista, mi ha riportato alla mente una canzone di Brunori Sas dal titolo La verità, nella parte in cui dice:
Te ne sei accorto, sì
Che parti per scalare le montagne
E poi ti fermi al primo ristorante
E non ci pensi più
Cosa mi dici a proposito di quello strano giro di boa che rappresenta la mezza età?
Il romanzo parla anche di questo, dell’età di mezzo, dei desideri che sono ancora lì intatti come quelli che avevi a vent’anni, della vita sociale che ha reso quei desideri impraticabili. E se hai ambizione è persino peggio. Pensi di avere le gambe ancora forti, ma poi durante la scalata ti accorgi che non ti porteranno molto in alto. Soprattutto è l’età in cui una reputazione si è ormai formata, e diventa una galera, un freno a qualunque spinta vitale, un ostacolo all’eccentricità. Il dubbio se continuare a scalare o fermarsi al ristorante, come tutti si aspettano che tu faccia, è quotidiano. Una risposta (difficile, precaria, traballante) il romanzo prova a darla.
Sandro Veronesi è stato per te insegnante e mentore nel corso degli anni in cui hai studiato alla Scuola Holden, nonché autore per cui nutri una profonda stima. Durante la stesura di Nessuna ragione al mondo, ti sei ispirato a qualcuna delle sue opere? E in generale, a quali opere ti sei ispirato per il tuo romanzo?
Sandro mi ha insegnato tutto quello che so sui dialoghi. Più che ispirarmi a un suo romanzo, spero di aver fatto tesoro della sua maestria nel dare voce diretta ai personaggi.
I riferimenti invece sono tanti, infatti il romanzo rielabora il topos narrativo dell’amicizia virile e del tradimento: penso a Le braci di Sandor Marai, Il senso di una fine di Julian Barnes, La versione di Barney di Mordecai Richler, Pieno giorno di J.R. Moehringer, L’amico ritrovato di Fred Uhlman, ma c’è anche un debito verso romanzi che hanno indagato l’impostura come L’avversario di Carrere e Il segreto di Joe Gould di Joseph Mitchell.
Nel tuo romanzo Andrea, parlando del mondo giornalistico, dice quanto segue: «Nel mio mestiere può bastare un solo momento di gloria per cambiare il passo di una carriera. […] Non importa il merito. Le ragioni per cui si viene invitati alla loro eterna festa sono irrilevanti ai fini della permanenza quanto il cappotto lasciato all’ingresso alla guardarobiera» (p.121). Tu che, in qualità di cofondatore della casa editrice Autori Riuniti, il mondo letterario lo valuti anche attraverso gli occhi di un editore, ritieni che valga lo stesso per la carriera di uno scrittore?
Purtroppo sì. Questo è un mondo che tributa più merito all’amicizia, o alla notorietà, che alla pagina. L’unica via che cerco di seguire, e che mi sento di consigliare, è occuparsi con tenacia della propria opera, pensarla come un lungo cammino e non come la somma algebrica di libri a se stanti, avere come unica meta il lettore, spronarlo senza mai schiacciarlo, tenere sempre a mente che si legge alla ricerca di un’emozione, non di una fredda contemplazione estetica. Poi l’ambiente letterario deciderà quando e se farci entrare in salotto, noi stiamo comunque bene in strada, tra i lettori. Hic manebimus optime.
Chiudo quest’intervista con una domanda importantissima: se Andrea potesse rispondermi, quale scotch mi consiglierebbe di bere durante la stesura di un romanzo?
Laphroaig invecchiato 16 anni. Ma con cautela, se no la pagina ne risente e poi arrivano gli odiosi maestrini come me a segare tutto con la penna rossa.
a cura di Valeria Zangaro
Foto di apertura: Sergio Sepielli