Marco Marsullo, intervista allo scrittore: libri, esordi e scrittura creativa

 Marco Marsullo, intervista allo scrittore: libri, esordi e scrittura creativa

Con L’anno in cui imparai a leggere (che abbiamo recensito qui), Marco Marsullo ha confermato al grande pubblico di essere non solo uno degli autori più amati della nuova generazione ma anche un abilissimo cantore della famiglia e della vita di oggi. Napoletano doc dallo stile sincero e contemporaneo, Marsullo ha già pubblicato numerosi romanzi di successo. Per conoscerlo meglio abbiamo provato a chiedergli dei suoi esordi e di quando si è reso conto di essere uno scrittore, di cosa possiamo insegnare ai bambini e di quanto possiamo imparare da loro. Dalla nostra chiacchierata è emerso un ritratto autentico e diretto, proprio come la sua scrittura.

A 35 anni hai già all’attivo diverse opere pubblicate da Einaudi, fra cui il tuo romanzo d’esordio. Come sei riuscito a farti notare da figure del calibro di Paolo Repetti e Severino Cesari?

La storia è molto bella e particolare, l’ho raccontata un milione di volte. Mi procacciai con l’arguzia l’email di Severino Cesari (un uomo fantastico, che purtroppo non c’è più) e gli scrissi, in maniera sfrontata ma educata, che mi sarebbe piaciuto pubblicare per Einaudi Stile Libero e avevo un romanzo pronto. Lui mi rispose chiedendomi come avessi avuto la sua mail, che non era pubblica su internet. Io glielo raccontai e lui volle leggere quel mio romanzo. Quel romanzo era Atletico Minaccia Football Club. E a Severino, alla sua dolcezza e al suo ascolto, io devo tutte le cose belle che mi sono successe in questo mio fantastico lavoro.

Quanto conta per un giovane autore avere accanto una casa editrice importante (nel tuo caso Einaudi, Laterza, Rizzoli) e quali sono state in modo particolare le tue figure di riferimento in questi anni? 

Be’, indubbiamente tanto. Ho la fortuna di lavorare con la mia editor, che ormai è una carissima amica da anni, Rosella Postorino. Penso anche a Raffaella Baiocchi, che mi aiuta nella seconda fase di correzione delle bozze, da ormai cinque romanzi. Ma tutto il resto della redazione e dell’ufficio stampa sono di altissimo livello. Per un autore è molto importante essere circondato da professionisti capaci.

Quando hai avuto la percezione che la scrittura sarebbe diventata una parte fondamentale della sua vita?

Dalle elementari, più o meno. Scrivere era quello che mi rendeva più felice. Solo che non immaginavo che sarebbe diventato, un giorno, il mio lavoro. Quando l’ho realizzato avevo ventiquattro anni e avevo firmato il mio primo contratto con Einaudi. In quel momento ho capito che avrei dovuto dedicare ogni mia energia alla scrittura.

C’è una generazione di scrittori italiani nati negli anni Ottanta che sta riscuotendo notevole successo di pubblico e di critica. Ritieni di appartenere a questo gruppo, e cosa rappresenta questa generazione, nel mondo della letteratura odierna?

In realtà credo di essere uno dei pochissimi nato negli anni Ottanta. Forse ce ne sono un altro paio, almeno tra i grandi editori. Non so cosa rappresenta e non mi interessa granché partecipare a gruppi generazionali. Io racconto le mie storie e ci metto tutto me stesso, guardo poco al panorama editoriale, ognuno ha una sua voce e deve restare fedele a quella.

Ci sono autori connazionali a te contemporanei a cui ti senti più affine?

Cristiano Cavina, oltre a essere un caro amico, è uno scrittore che ammiro particolarmente. Lorenzo Marone, anche, a lui voglio proprio un gran bene.

Il tema della genitorialità è spesso presente nei tuoi romanzi (vedi I miei genitori non hanno figli). Quanto conta la famiglia nella tua opera e quanto incide nella vita di ognuno di noi? 

La famiglia è una delle mie ossessioni narrative, sì. Sia perché mi diverte molto raccontarla; caotica, piena di personaggi e contrasti, anche molto intimi, violenti, comici. E poi perché ho una storia famigliare un po’ complessa e particolarmente divertente (almeno per me).

Leggendo il romanzo L’anno in cui imparai a leggere non si ha l’idea che si tratti di un manifesto politico ma quello delle famiglie non tradizionali è un argomento molto dibattuto in Italia. Hai ricevuto critiche o elogi per aver affrontato il tema? 

Non volevo in alcun modo fare politica con quel romanzo. Non me ne occupo, io racconto storie, che però possono avere, a conti fatti, un’incidenza nella società. Il mio obiettivo era molto puro: raccontare una genitorialità diversa da quella canonica e farlo nel modo più spontaneo e diretto possibile. Anche per dare voce alle famiglie “atipiche”, ma senza intento di creare un manifesto politico. Le storie sono la miglior propaganda per le diversità, nel mondo.

Nello stesso romanzo racconti di Lorenzo, un bambino di 4 anni. Colpisce molto la veridicità del suo ritratto: la psicologia del bambino è raccontata con sincerità, senza compassione e senza un atteggiamento giudicante. Come sei riuscito a restituire una descrizione così vera di un personaggio così piccolo? Cosa ti ha aiutato?

Adoro i bambini e da qualche anno tengo delle lezioni di scrittura creativa in una scuola elementare della mia città. I bambini sono un mondo prezioso, gioioso e serissimo che mi incuriosisce e appassiona in modo particolare. Volevo raccontare un bimbo di quattro anni normale, senza alcun dono né handicap. Un bambino con il quale empatizzare più che per la sua serietà e il suo dolore che per la sua fanciullezza.

Nel libro uno dei protagonisti, Niccolò (fidanzato della madre del bambino) dichiara sin da subito di aver imparato molto da Lorenzo: cosa possono insegnare i bambini agli adulti nella vita vera?   

Tutto. Fare un elenco sarebbe limitante. Nei bambini si cela l’essenza più violenta e tenera dell’umanità. Dovremmo prendere esempio più spesso dalla loro assenza di sovrastrutture. Nel bene e nel male.

Nel romanzo Niccolò insegna a Lorenzo a scrivere. Anche in base alla tua esperienza con i corsi per bambini e per ragazzi, quali sono le potenzialità dei più piccoli in rapporto alla scrittura?

Non è facile, oggi, far scrivere storie inventate a bambini dagli otto ai dieci anni. Perché sono nati, non solo cresciuti, nell’epoca dei tablet e di Fortnite. Il loro universo è già assimilato da questi universi paralleli. La vera sfida è quella di fargli fare un passo indietro rispetto a tutto questo e dargli modo di recuperare la fantasia, attraverso l’ascolto, la noia (importantissima, specie per i bambini) e l’immaginazione. Solo così si risveglia la curiosità nei loro cervelli e scatta la scintilla.

Il rapporto padri-figli è uno dei grandi topoi della letteratura universale ma anche del cinema: c’è un libro o un film dal quale hai tratto ispirazione? 

Non da uno in particolare. Non saprei fare degli esempi. Cito di nuovo Cavina: “I frutti dimenticati”, romanzo particolare e bellissimo sull’essere figli storti. Leggetelo.

a cura di Barbara Rossi

 

Barbara Rossi

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *