Julio Cortázar: lo scrittore “fantastico” raccontato in 5 parole
Nato a Bruxelles centodieci anni fa, «segno zodiacale: Vergine, quindi astenico, con tendenze intellettuali», Julio Florencio Cortázar è uno degli scrittori più significativi del Novecento, non solo del panorama letterario sudamericano, ma anche compartecipe del boom che quella scena ha vissuto negli anni Sessanta. Forse la biografia più puntuale l’ha concepita l’illustratore argentino Miguel Repiso, aka Rep: «Qualcuno di molto alto, altissimo, con gli occhi molto separati, nasce un giorno e un altro muore. Nel mentre se ne va a elefanteggiare dappertutto, e lascia un mucchio di gesti, di scritti, di amori e di ribellioni». Julio Cortázar è stato un’idra a più teste che ha «elefanteggiato» in diverse declinazioni: autore di racconti brevi – e maestro del microrrelato –, romanziere e antiromanziere, traduttore indefesso, poeta per diletto, «epistolero» convulso e sempre con la canna fumante, sperimentatore avanguardista e uomo da una solida coscienza sociale, dromomaniaco, più parigino che porteño. Puntellarne un ritratto in cinque parole è drammaticamente complicato, ma proviamoci.
Julio Cortázar: chi è lo scrittore in 5 parole
Fantastico
I racconti di Cortázar, che costituiscono il cuore pulsante della sua produzione, appartengono a quel filone che – nelle parole di JC stesso – definiamo «fantastico per mancanza di un termine migliore, in reazione al falso realismo che consiste nel credere che tutto si possa descrivere o raccontare». Oggi diremmo che si iscrivono nel solco del weird, dello strano, segnato da Edgar Allan Poe – che non a caso JC adorava, e traduceva. Casa tomada è il suo La caduta della casa degli Usher, e Autopista del sur il suo scanzonato Il cuore rivelatore. La predilezione per la forma breve è surrogata da tutta una serie di riflessioni e metafore che Cortázar prende in prestito dalle arti visuali, dall’astronomia e dalla boxe: «un romanzo può vincere ai punti», recita uno dei suoi assiomi più celebri, «ma un racconto deve farlo per knock out». Nella sua visione, il romanzo sta al film come il racconto alla fotografia: più pivotale della successione di immagini è «la scelta» dell’immagine da immortalare, e la maniera in cui lo si fa. La narrazione di Cortázar procede per scarnificazione e irradiazione, non segue la linea dell’orizzontalità ma quella della verticalità, è una spedizione speleologica, un’escursione nel «non detto» che il racconto irradia oltre se stesso.
Punto di partenza di ogni racconto efficace, capace di concentrare in poche pagine un intero mondo, è il tema «che è come un sole, un astro intorno al quale gravita un sistema planetario che emerge solo grazie alle parole dello scrittore». E alle inferenze del lettore.
Rayuela
Se c’è un libro di Cortázar che più di ogni altro sa prenderti a sganassoni, metterti all’angolo e distruggerti lasciandoti con gli occhi muffi e la mascella che scricchiola, quel libro è Rayuela – che doveva chiamarsi Mandala, come «quei labirinti mistici della cultura induista e buddhista composti da quadri o disegni divisi in settori», e che è finito per intitolarsi invece col nome che gli ispanofoni danno alla nostra Campana.
Libri miscellanei – almanacchi, collages, pastiches – Cortázar ne aveva scritti – e ne avrebbe scritti – altri: Il giro del giorno in ottanta mondi, Ultimo Round, Componibile 62, Fantomas contro i vampiri multinazionali. Ma tutto muoveva i passi, o tendeva, a Rayuela, controromanzo, foro d’uscita di un enorme imbuto, atto di sfida al lettore, chiamata al disordine e allo stesso tempo balbettio delirante, surrealista, patafisico, profondamente parigino e allo stesso tempo argentino.
Nelle sue parole: «A modo suo, questo libro è molti libri, ma soprattutto è due libri. Il primo, lo si legge come abitualmente si leggono i libri, e finisce con il capitolo 56. […] Il secondo lo si legge cominciando dal capitolo 73 e seguendo l’ordine indicato a piè di pagina di ogni capitolo».
In Rayuela Cortázar trasforma il lettore in un frère-ennemi, fratello e nemico al contempo, in un complice, quasi un co-autore: con una definizione che oggi non accoglieremmo con lo stesso entusiasmo, Cortázar definiva il lettore ideale di Rayuela tutto il contrario del lector-hembra, «lettore-femmina», «che non vuole problemi ma soluzioni, o almeno falsi problemi che gli permettano di soffrire commodamente sulla sua poltrona, senza coinvolgimenti». Leggere Rayuela è un perenne strabordo di argini e apertura di porte, frammentazione, esasperazione e coagulazione. Una vera esperienza-mondo.
Cronopio
La vastità dell’esperienza reale ha portato Cortázar alla ricerca – per raccontarlo – non solo di nuovi linguaggi, ma di vere e proprie lingue. «Per me è quasi un Bolívar della letteratura latinoamericana», ha scritto Carlos Fuentes. «Un uomo che ci ha liberati, che ci ha detto: “si può fare tutto”». Non ha solo abbracciato il «lunfardo», la lingua del tango, dei sainete, per affondare nei contesti dei suoi racconti più porteños: ha inventato parole, intere lingue, facendosi onomaturgo jitanjaforista (la jitanjafora è un’espressione linguistica composta da parole o espressioni perlopiù inventate, prive di significato di per sé).
Il fortrán che parla il «rabinito» Lonstein in Il libro di Manuel, la lingua incomprensibile di Calac e Polanco in Componibile 62, ma soprattutto il «gliglico» che è la lingua d’amore tra la Maga e Horacio Oliveira in Rayuela: idiomi segreti, esclusivi, eppure universali. Il lessico di Cortázar è pieno di parole-valigia, costruite sull’esperienza fonetica, morfologica e semantica di ognuno di noi, eppure capace di trascenderne: una lingua unheimlich, perturbante.
L’onomaturgia cortazariana più felice, però, è quella che risiede nell’invenzione dei suoi personaggi più celebri, i cronopios e i famas, categorie umane archetipizzate e ribaltate, che tra un «català tregua espera» e un «buenas salenas», «cronopios cronopios» canalizzano e declinano la nostra (dis)conoscenza del mondo.
Parigi
Cortázar, fin dagli anni dell’adolescenza bonaerense, ha sempre sacralizzato Parigi, subendo la fascinazione delle sue strade, della cultura che per quelle strade pullulava, dei ponti sulla Senna che sono sempre stati, per lui, la metafora della congiunzione tra due estremi inconciliabili, eppure in lui conciliabilissimi. A inizio anni Cinquanta Parigi, da meta ambita, si è trasformata in «casa», teatro di un flanuerismo baudelairiano sempre serendipico.
«Il mio mito di Parigi» ha detto «ha giocato a mio favore. Mi ha permesso di scrivere un libro, Rayuela, che è un po’ la messinscena mitica di una città. Tutta la prima parte, ambientata a Parigi, è la visione di un latinoamericano, un po’ perso nei suoi sogni, che passeggia per una città che è anche un’immensa metafora […]. Parigi è come un cuore che batte tutto il tempo; non è solo il posto in cui vivo, è un’altra cosa. È un posto in cui esiste una specie di osmosi, un contatto vivo, biologico». In una Parigi fatta di luoghi e non-luoghi vive, se non tutta, buona parte della letteratura di Cortázar: dal Pont des Arts sul quale si incontrano senza cercarsi la Maga e Horacio in Rayuela alla metropolitana, universo sommerso che vive una vita autonoma, con ritmi diversi da quelli del cosmo sopraelevato, capace di suscitare riflessioni e scatenare il weird, in cui sono ambientati alcuni dei suoi racconti più memorabili.
Jazz
Cortázar ha scritto molto di jazz. I ritratti del cronopissimo Satchmo Armstrong e Thelonious Monk, le vicende di Johnny Carter (cioè Charlie Parker) al centro di Il persecutore sono meravigliosi almeno quanto il suono delle loro trombe, sassofoni e pianoforti, ma il concetto è un altro: Cortázar è la tromba di Satchmo, ragiona coi tempi sincopati di Monk e con la genialità improvvisativa di Parker – la sua scrittura è intrinsecamente jazz, anche quando non parla di jazz.
«Il jazz mi ha insegnato quel certo swing che è al centro del mio stile, e cerco sempre di scrivere i miei racconti un po’ come il musicista si pone di fronte a una take: con la stessa spontaneità e lo stesso spirito di improvvisazione».
Questo swing è, in nuce, tutto l’approccio ludico della sua scrittura. «Non ha niente a che fare con rime o allitterazioni: è il ritmo che se non c’è in quello che faccio, quella per me è la prova che non serve, e bisogna buttarlo e ricominciare». E proprio come Johnny Carter-Charlie Parker, in una scena di Il persecutore, dice: «Questo l’ho già suonato domani» quando sente mescolarsi in sé il fuoco sacro della creazione, l’improvvisazione visionaria e l’avanguardia, allo stesso modo Julio Cortázar avrebbe potuto dire, di fronte a ognuno dei suoi racconti, di Rayuela, financo delle sue opere più impegnate: questo l’ho già scritto domani.
I primi libri da leggere per conoscere lo scrittore
- Bestiario, Einaudi, 1965
- Storia di cronopios e famas, Einaudi, 1971
- Ottaedro, Einaudi, 1979
- Rayuela, Einaudi, 1969
Nel 2014, in occasione dei 100 anni dalla nascita di Julio Cortázar, Fabrizio Gabrielli mise in musica l’opera Rayuela e venne fuori una traccia rap che potete ascoltare qui, si chiama Rapyuela. Fabrizio Gabrielli è in libreria con Federico Buffa con il libro La Milonga del Fùtbol. Un secolo di calcio argentino edito da Rizzoli.
A cura di Fabrizio Gabrielli