Italo Calvino: l’intervista impossibile ispirata a Il sentiero dei nidi di ragno
Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo.
Personalità prolifica ed eccentrica, Italo Calvino è tra i più amati narratori italiani contemporanei, anche tra i giovanissimi. Nato in una famiglia di scienziati, manifestò l’istinto della scrittura già da giovane, cimentandosi con racconti e piccole storie pubblicate su riviste locali, ma la successiva collaborazione con Einaudi lo proiettò presto nell’Olimpo dei grandi autori. Anarchico per indole e partigiano per scelta, non separò mai la letteratura né dalla vita né dall’attivismo politico e culturale. Abbiamo immaginato di intessere con lui un dialogo in punta di immaginazione e di seguirlo sui «sentieri di nidi di ragno». Questa è la nostra intervista, necessariamente fantastica!
Signor Calvino, la ringrazio per aver accettato di incontrarci. La critica di oggi la definisce una delle personalità più importanti della letteratura italiana. Vorrei partire con lei dalla scrittura. Come si stabilisce il momento esatto in cui una storia inizia?
«Tutto è sempre cominciato già da prima, la prima riga della prima pagina d’ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori dal libro. Oppure la vera storia è quella che comincia dieci o cento pagine più avanti e tutto ciò che precede è solo un prologo. Le vite degli individui della specie umana formano un intreccio continuo».
Qual è il significato artistico della scrittura?
«L’arte di saper scriver storie sta nel saper tirare fuori da quel nulla che si è capito nella vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla».
E che rapporto c’è, se c’è, tra lettura e scrittura?
«A pensarci la lettura è un atto necessariamente individuale, molto più dello scrivere». «È un rapporto con noi stessi e non solo col libro, col nostro mondo interiore attraverso il mondo che il libro ci apre».
Nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, affronta temi importanti come quello della Resistenza ma dal punto di vista di un bambino. Come si sente in merito al successo che ha avuto?
«Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’essere definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne la conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescindere».
Quanta consapevolezza ha Pin, il giovane orfano protagonista del romanzo, della guerra che gli accade intorno?
Pin non sa bene la differenza tra quando c’è la guerra e quando non c’è. Da quando è nato gli sembra d’aver sentito solo parlare sempre della guerra».
La guerra e la lotta: sono questi, dunque, i due moventi narrativi e “biografici” di tutti i personaggi del romanzo?
«Gli uomini combattono tutti. […] Ci sono i contadini, gli abitanti di queste montagne, per loro è già più facile. Loro lo sanno. Cosa li spinge a questa vita, cosa li spinge a combattere. I tedeschi bruciano i paesi, portano via le loro mucche. È la prima guerra umana la loro, la difesa della patria, i contadini hanno una patria. Così li vedi, vecchi e giovani, con i loro fucilacci e le cacciatore di fustagno, paesi interi che prendono le armi. E la patria diventa un ideale sul serio per loro, li trascende, diventa la stessa cosa della lotta: loro sacrificano anche le case, anche le mucche pur di continuare a combattere. Per altri contadini, invece, la patria rimane una cosa egoistica: casa, mucche, raccolto e per conservare tutto diventano spie, fascisti. Poi, gli operai. Gli operai hanno una loro vita di salari, di scioperi, di lavoro e lotta a gomito a gomito. Sono una classe, gli operai. Sanno che c’è di meglio nella vita e che si deve lottare per questo meglio. Anche loro hanno una patria, ancora da conquistare e combattono per conquistarla. Ci sono gli stabilimenti giù nelle città, che saranno loro; vedono già le scritte rosse sui capannoni e bandiere alzate sulle ciminiere. Ma non ci sono sentimentalismi, in loro. Capiscono la realtà e il modo di cambiarla. Poi c’è qualche intellettuale o studente, ma pochi, qua e là, con delle idee in testa, vaghe e spesso storte. Hanno una patria fatta di parole, o tutt’al più di qualche libro. ma combattendo troveranno che le parole non hanno più un significato, e scopriranno nuove cose nella lotta degli uomini e combatteranno così senza farsi domande finché non cercheranno nuove parole e troveranno le antiche, ma cambiate, con significati insospettati. Poi chi c’è ancora? Dei prigionieri stranieri, scappati dai campi di concentramento e venuti con noi; quelli combattono per una patria vera e propria, una patria lontana che vogliono raggiungere e che è patria appunto perché è lontana. Questa è tutta la lotta dei simboli».
Dunque si combatte per i propri interessi – personali, di classe, di casta – non c’è niente di condiviso, niente di collettivo in questa lotta?
«C’è qualcosa che li accomuna: il furore. Ci sono ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi. Gente che s’accomoda nelle piaghe della società e s’arrangia in mezzo alle storture, che non ha niente da difendere e niente da cambiare. Un’idea rivoluzionaria in loro non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina. Oppure nascerà storta, figlia della rabbia, dell’umiliazione. Perché combattono allora? Non hanno nessuna patria, né vera, né inventata. Eppure tu sai che c’è il coraggio, che c’è furore anche in loro. È l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il suicidio della loro casa, la fatica di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri».
La guerra ha un significato? Crede possa avere un senso lottare?
«Al di là dei vari significati ufficiali, questo è il significato vero della lotta: una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo da tutte le loro umiliazioni. Per l’operario dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per la patria dalla sua corruzione».
Se dovesse lasciare un solo messaggio alle nuove generazioni, quale sarebbe?
«Direi ciò che ho imparato dalla vita. Anche ad essere si impara. L’uomo porta dentro di sé le sue paure bambine per tutta la vita. Arrivare a non avere più paura, è la meta ultima dell’uomo».
Le citazioni contenute in questa intervista sono tratte da:
- Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Mondadori, 2010
- —, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2023
- —, Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, 2015
- —, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, 2002
A cura di Cristina Stabile