Loredana Lipperini: “Ho messo in un libro la storia di uno sceneggiato anni Settanta. La paura? Non è da domare, ma da abbracciare”

Scrivere significa spesso attraversare confini: tra generi, epoche, immaginari. Loredana Lipperini, giornalista, scrittrice e voce autorevole del panorama letterario italiano, lo sa bene. Con il suo romanzo Il Segno del Comando (Rai Libri, 2024), ha raccolto la sfida di reinterpretare uno dei più iconici sceneggiati televisivi degli anni Settanta, portandolo sulla pagina scritta in una forma nuova e personale. Tra atmosfere gotiche, misteri irrisolti e un fascino che attraversa le generazioni, l’autrice ci regala una storia capace di dialogare con il passato, parlando al presente.
Ne abbiamo parlato con lei e, in questa intervista, Lipperini ci ha raccontato il processo creativo che l’ha portata a trasformare l’opera originale in un romanzo, il suo rapporto con la scrittura e il modo in cui è riuscita a bilanciare omaggio e innovazione.
Solitamente si traspone un libro in film o sceneggiato, ma qui è avvenuto il contrario: da uno sceneggiato a un romanzo. Può raccontarci com’è avvenuto questo processo e quali difficoltà ha incontrato nell’adattare una narrazione visiva in una forma letteraria?
Quando Roberto Genovesi, poco dopo essere diventato direttore di Rai Libri, mi ha proposto di trasformare alcuni sceneggiati iconici della televisione italiana in romanzi, non ho esitato un attimo ad accettare l’idea di lavorare su Il Segno del Comando. Da ragazzina ero una fan sfegatata dello sceneggiato. A 14 anni, con le amiche, avevamo costituito un vero e proprio fandom e facevamo pellegrinaggi nei luoghi chiave della storia per vivere quelle atmosfere. Il legame con l’opera era quindi già molto forte. Anche se esisteva una precedente novellizzazione del 1987 a cura di Giuseppe D’Agata, il mio obiettivo era trasformare lo sceneggiato in un vero e proprio romanzo, senza ovviamente nulla togliere a ciò che già era stato fatto.
Il primo passo è stato rivedere lo sceneggiato, peraltro rivisto più volte negli anni. Ho lavorato cercando di riempire i vuoti, di dare profondità ai personaggi e alle loro backstories, laddove il prodotto visivo per sua natura non poteva spingersi. Questo è stato particolarmente importante per i villains e per i personaggi femminili, che nello sceneggiato originale risultavano sottorappresentati, per vari motivi. Mi sono chiesta: chi manca? E mancavano le donne. Così ho deciso di dare loro centralità, facendo iniziare ogni capitolo con una voce femminile.
Un altro aspetto fondamentale è stato il ruolo di Roma, che ho voluto valorizzare come città di alchimisti, esplorando luoghi chiave come la Porta Magica o Campo de’ Fiori, e interrogandomi su cosa ci fosse davvero dietro il Segno del Comando. Infine, ho giocato con lo spirito del tempo: lo sceneggiato è del 1971, e alcuni collegamenti o intrecci che ho inserito nel romanzo potevano emergere solo a posteriori, grazie alla prospettiva storica e alle conoscenze che abbiamo oggi. Questo mi ha permesso di ampliare la narrazione, mantenendo intatto il fascino dell’opera originale ma aggiungendo nuove dimensioni e significati.
Il Segno del Comando è considerato un classico della televisione italiana. Come si riesce a rendere moderna e applicabile a una società degli anni Duemila una storia degli anni Settanta? C’è un esempio specifico di un elemento che ha dovuto rivedere per adattarlo ai giorni nostri? Ha potuto sviluppare liberamente qualcosa che all’epoca era soggetto a censura?
Gli anni Settanta sono un periodo di grandi trasformazioni sociali e culturali, e volevo che nel romanzo questa atmosfera fosse percepibile. Una scena emblematica in tal senso è quella in cui Forster, in preda a visioni e allucinazioni, nello sceneggiato originale è rappresentato in modo molto onirico e astratto. Nel romanzo, invece, ho scelto di esplicitare l’assunzione di LSD, una sostanza psichedelica già ben nota e diffusa all’epoca, ma che, ovviamente, in uno sceneggiato degli anni Settanta trasmesso in Rai non poteva essere mostrata direttamente.
Ho anche voluto colmare una mancanza che avevo percepito nello sceneggiato: c’era uno scollegamento con ciò che stava accadendo nel mondo e in Italia in quegli anni, sia a livello sociale che storico. La narrazione si concentrava esclusivamente sulla trama, trascurando quasi del tutto il contesto storico. Nel romanzo, invece, ho cercato di integrare riferimenti alla contemporaneità dell’epoca, aggiungendo dettagli che potessero restituire l’atmosfera di quel decennio e offrire una lettura più critica del contesto.
Nel romanzo emergono figure femminili forti e indipendenti. In che modo ha sviluppato questi personaggi e quale messaggio intende trasmettere attraverso di loro?
Non avevo in mente di trasmettere un messaggio specifico attraverso i personaggi femminili, ma desideravo amplificarne la presenza e la profondità, cosa che nello sceneggiato originale era limitata. Questo romanzo è nato con l’obiettivo di dare voce e contesto a figure che nello sceneggiato erano spesso relegate a ruoli marginali o lasciate nell’ombra, con tanti «non detti». Nel lavorare a posteriori su una storia ambientata negli anni Settanta, era inevitabile intrecciare la narrazione con le tensioni e le trasformazioni sociali di quegli anni, in particolare quelle legate al movimento femminista, che in Italia stava muovendo i primi passi. Ho voluto che questa tensione verso l’emancipazione, l’autonomia e l’autodeterminazione fosse palpabile nei personaggi femminili, riflettendo le lotte e i desideri di quel periodo. Ogni donna del romanzo incarna una sfumatura diversa dell’essere donna: da Ada a Maria Luisa Giannelli, da Olivia a Giuliana, fino ovviamente a Lucia, che ho voluto rendere una figura centrale e complessa, oltretutto con una chiusura diversa rispetto a quella proposta dallo sceneggiato. Sono personaggi che non si limitano a reagire agli eventi della trama, ma che hanno una loro individualità, una loro storia e motivazioni ben definite.
Ha condotto ricerche particolari o visitato luoghi specifici per immergersi nell’ambientazione?
Per immergermi nell’ambientazione del romanzo, ho intrapreso un viaggio tra i luoghi chiave di Roma, ripercorrendo quelli già citati nello sceneggiato e aggiungendone altri che, all’epoca, erano marginali o non riportati. Tra questi, la già citata Porta Magica – nota anche come Porta Alchemica o Porta dei Cieli – e Campo de’ Fiori, che ho voluto valorizzare come simboli del ruolo di Roma come città alchimista. Rivisitare questi luoghi è stata un’esperienza intensa, un «tour» guidato sia dallo spirito dello sceneggiato sia dalla mia memoria personale. Non ho potuto fare a meno di provare una profonda nostalgia, osservando quanto questi spazi siano cambiati nel tempo: le differenze non sono solo storiche, ma anche concrete, visibili nella topografia stessa della città.
E rimanendo sempre su Roma, come tema: la città è come se fosse un personaggio a sé, nel romanzo. Sappiamo che Roma è la sua città d’origine e la città in cui vive da sempre, ma che legame sente di avere con questa città?
Il mio legame con Roma è complesso, altalenante e spesso ambivalente. Nel 2022 ho pubblicato Roma dal bordo: una geografia sentimentale, dove ho esplorato questo rapporto fatto di grande amore, ma anche di insofferenza verso le contraddizioni e le criticità sempre più evidenti della città. Roma, oggi, sembra aver perso parte della sua anima, trasformandosi in un parco divertimenti, un ristorante a cielo aperto, un luogo pensato più per l’intrattenimento che per la vita quotidiana. Tuttavia, in Il Segno del Comando ho scelto di lasciarmi andare a un atto d’amore nei confronti della città. Ho raccontato la Roma che conoscevo e amavo, quella dei miei ricordi e dei miei momenti di crescita, restituendole la magia e il fascino che mi hanno sempre incantata. È una Roma intrisa di nostalgia, la città che vive ancora nella mia memoria, fatta di segreti, alchimia e atmosfere irripetibili.
Il romanzo si nutre di un’atmosfera di mistero e tensione. Qual è il suo rapporto personale con la paura? Crede che, come autrice, sia un sentimento da domare o da abbracciare?
La paura non è qualcosa da domare, ma da abbracciare e comprendere. Come autrice, è una parte essenziale del mio lavoro. Abbracciare sentimenti come la paura, il dubbio, il mistero e l’incomprensibile, ci offre l’opportunità di esplorare non solo storie affascinanti, ma anche il mondo che ci circonda, persino quando ciò che raccontiamo appartiene al regno della finzione. La finzione, spesso sottovalutata o criticata, è invece un potente strumento per decifrare la realtà. Cito spesso Ursula K. Le Guin e il suo approccio al fantastico come mezzo per illuminare il reale. Si può comprendere molto di più il mondo dal fondo di un’astronave che sorseggiando un cocktail a Manhattan.
Ha dei riti particolari quando scrive? Un orario del giorno in cui si sente più ispirata, una playlist che l’accompagna, o altro? Quanto questi dettagli quotidiani influenzano la sua creatività?
Non ho mai avuto riti particolari per scrivere, non ascolto musica né, a Roma, ho una stanza tutta per me. Tuttavia, quando arriva il momento cruciale di chiudere un romanzo, c’è un posto speciale a cui mi rivolgo: Serravalle di Chienti, nelle Marche. Questo luogo, legato ai miei ricordi d’infanzia, è da sempre la mia fonte di energia e concentrazione. Lì, circondata da panorami che sembrano sospesi nel tempo, riesco a trovare l’atmosfera giusta per portare a termine i miei lavori.
A chi pensa mentre scrive? Ha un lettore ideale in mente o preferisce lasciare che le sue storie trovino il loro pubblico in modo naturale?
A costo di sembrare in controtendenza, non scrivo pensando a un target specifico. So che oggi è comune, quasi necessario, targettizzare i prodotti editoriali, ma non è il mio approccio, neanche con Il Segno del Comando. Per me, i libri sono di tutti: di chi legge abitualmente, ma anche di chi magari non legge mai e si ritrova a scegliere un libro per un motivo inatteso, una curiosità o una connessione personale.
Penso, ad esempio, al passante che si imbatte per caso in questo romanzo, attratto dalla memoria dello sceneggiato, o a un giovane lettore che scopre per la prima volta quella realtà proprio attraverso le mie pagine. Non ho un lettore ideale; scrivo per chiunque voglia leggere e ascoltare. Le storie trovano il loro pubblico in modo naturale, e questa spontaneità, per me, è fondamentale.
A cura di Martina Melgazzi