«Cosa vuol dire essere brillanti?», intervista impossibile a Francis Scott Fitzgerald
Francis Scott Fitzgerald fu uno degli scrittori più preminenti nella Storia della letteratura americana grazie all’enorme successo, postumo, del suo libro Il grande Gatsby, considerato il romanzo americano per antonomasia, in cui lo scrittore delinea la storia sociale dell’epoca del jazz. Al centro del suo immaginario ci sono il «sogno americano» del successo e l’evasione da una realtà che lascia presagire l’imminenza del disastro avvenuta pochi anni dopo la fine della guerra.
«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
Abbiamo immaginato di dialogare con lui e chiedergli di quegli anni e della sua vita. Questa è la nostra intervista, necessariamente fantastica!
Signor Fitzgerald, la ringrazio per aver accettato di prendere parte a questa intervista. Oggi giorno è conosciuta come una icona dei ruggenti anni Venti, gli anni del jazz ma soprattutto come uno dei maggiori pionieri della letteratura americana. Posso chiederle da dove è nato il suo istinto per la scrittura?
«Si scrive di cicatrici guarite, un parallelo comodo della patologia della pelle, ma non esiste una cosa simile nella vita di un individuo. Ci sono ferite aperte, a volte ridotte alle dimensioni di una punta di spillo, ma rimangono ferite. Sono dell’idea che non si scrive un libro perché si vuole dire qualcosa ma si scrive un libro perché si ha qualcosa da dire. Amo la gente e amo che la gente mi ama, ma lascio il mio cuore dove Dio lo ha messo, all’interno di noi stessi».
Ad oggi, le sue opere hanno raggiunto un successo spettacolare. I critici moderni la considerano una delle menti più brillanti della sua generazione.
«Cosa vuol dire essere brillanti? Semplicemente avere l’accortezza di seminare quando nessuno ti guarda e raccogliere quando ti guardano tutti».
Altri, invece, l’hanno crudelmente criticata. Non solo in ambito letterario. Cosa risponderebbe?
«Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente: “Quando ti vien voglia di criticare qualcuno,” mi disse, “ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu”. Non mi disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo. Perciò ho la tendenza a evitare ogni giudizio, un’abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri strani mi ha reso anche vittima di non pochi scocciatori inveterati».
Alcuni suoi colleghi reputano la scrittura una fonte di salvezza, ha avuto lo stesso ruolo anche per lei?
«Questa è fra le cose più belle della letteratura: scopri che i tuoi desideri sono universali, che non sei solo, che non sei isolato da nessuno. Sei parte di».
Ha mai desiderato di vivere un po’ più il successo che ha avuto negli anni a seguire?
«Non si può avere assolutamente niente. Perché il desiderio inganna. È come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza. Si ferma e illumina un oggetto insignificante, e noi poveri sciocchi cerchiamo di afferrarlo: ma quando lo afferriamo il sole si sposta su qualcos’altro e la parte insignificante resta, ma lo splendore che l’ha resa desiderabile è scomparso».
Gli anni Venti sono l’età del jazz, un’epoca un po’ particolare per le personalità che l’hanno vissuta: feste, sballo. Lei come li ha vissuti quegli anni?
«L’età del jazz ha continuato a vivere nel tempo, a poco a poco è diventata una questione di gioventù. Così che la sua sopravvivenza si può paragonare a una festa di bambini organizzata dai più anziani. C’era una certa benignità nell’ubriachezza: c’era quell’indescrivibile splendore che essa recava, simile ai ricordi di serate effimere e svanite. Il guaio è che quando si è sobri non si ha voglia di veder nessuno, e quando si è sbronzi nessuno ha voglia di vedere noi».
E l’amore? La sua relazione con la signora Zelda Sayre ha avuto un rilievo importante nella sua vita. Come la descriverebbe?
«Era sicura di sé, presuntuosa e priva di controllo. Ciò nonostante, non volevo cambiarla. Ogni suo difetto si accompagnava a un’energia passionale che lo annullava. La sua influenza su di me era immensamente grande. Mi pungolava a fare qualcosa per lei, a ottenere qualcosa da poterle offrire. La sua vita era stata disordinata e confusa da allora, ma se riusciva una sola volta a ritornare a un certo punto di partenza e ricominciare lentamente tutto daccapo, sarebbe riuscita a capire qual era la cosa che cercava. Il suo cuore era in costante e turbolenta rivolta. Le più grottesche e fantastiche ambizioni la braccavano la notte nel letto. Il suo cervello tesseva un universo di ineffabile lusso mentre l’orologio ticchettava sul lavabo e la luna bagnava di luce i suoi vestiti ammucchiati sul pavimento. Ogni notte accresceva quest’intreccio di fantasie finché la sonnolenza non si chiudeva con un abbraccio incurante su qualche vivida scena. Per qualche tempo questi sogni a occhi aperti le procurarono uno sfogo per la sua immaginazione; erano un soddisfacente indizio dell’irrealtà della realtà, una promessa che la saldezza del mondo era di sicuro fondata sulle ali di una fata».
Come si considera in amore?
«Non sono sentimentale, sono romantico. Il fatto è che i sentimentali credono che le cose durino. I romantici hanno una fiducia disperata che non durino».
Nel 1930, a Zelda fu diagnosticata la schizofrenia. È stata dura per entrambi affrontare una simile diagnosi?
«Aveva creduto di essere una salamandra e di vivere indenne nel fuoco, passando attraverso le fiamme, trasformandosi e rinnovandosi e acquistando una nuova pelle luminosa. Le cose belle si fanno sempre più belle fino a un certo loro apice e poi decadono e infine svaniscono, sfiatando ricordi mentre marciscono. Prima si dà il miglior ritratto di sé stesso, un prodotto splendente e rifinito, ritoccato di vanterie e falsità e umorismi. Poi diventano necessari i particolari e si dipinge un secondo ritratto e poi un terzo. In breve i lineamenti migliori si cancellano… e finalmente si rivela il segreto: i piani dei ritratti si sono mescolati e ci hanno tradito, e per quanto continuiamo a dipingere non riusciamo più a vendere un quadro».
È la notte del 10 marzo del 1948, un incendio divampa nel ventre dell’Highland Hospital dove risiedeva per le cure. È andata così?
«Non c’erano sistemi di allarme, né impianti per estinguere le fiamme: le uscite di sicurezza presero fuoco; le porte erano chiuse a chiave, le finestre sbarrate dalle catene. Morirono nove donne: tra le quali Zelda, arsa per sempre dal suo fuoco».
Le citazioni contenute in questa intervista sono tratte da:
- Piero Citati, La morte della farfalla, Adelphi, 2006
- Francis Scott Fitzgerald, Belli e dannati, Mondadori, 2016
- —, Tenera è la notte, Feltrinelli, 2015
A cura di Cristina Stabile