Fabio Stassi: intervista allo scrittore tra libri, musica, parole e treni da prendere
Fabio Stassi (1962), siciliano d’origine e viterbese d’adozione, lavora come bibliotecario presso l’università La Sapienza e si occupa anche di editoria (l’anno prossimo uscirà la Storia per Sellerio). Scrittore amato e prolifico, ha ottenuto molti riconoscimenti, tra i quali il premio Vittorini Opera prima con il romanzo d’esordio Fumisteria (Gbm, 2007 e poi Sellerio, 2015). È autore di romanzi, saggi, racconti e narrativa per ragazzi. Scrive sui treni pendolando tra Viterbo e Roma.
Il suo nuovo romanzo è Notturno francese edito da Sellerio (2023). Rivista Blam! ha chiacchierato con lui ed ecco l’intervista, tra libri, parole, musica e treni da prendere.
Intervista a Fabio Stassi
Quando hai capito di voler fare lo scrittore?
Sono stato fortunato perché in qualche modo mi sembra di averlo sempre saputo. Da quando ho imparato a scrivere, mi viene da dire. Mi innamorai dell’alfabeto, a sette anni fare lo scrittore era già un mio desiderio.
Quanto hanno influito le letture giovanili sulla tua produzione letteraria?
Senza quelle letture non sarei l’uomo che sono. Mi hanno formato, sono la mia carta di identità. Ritornano sempre in tutto quello che scrivo.
Come nascono le tue storie?
Impossibile da dire. A volte è un’idea che si fa strada lentamente, e si mette a fuoco. Altre volte, arriva già definita. Ma non sai quando, né perché. Puoi soltanto congetturare. Sono come cortocircuiti tra quello che vivi, le esperienze che fai, i libri che leggi, le persone che conosci. Ma sono tra quelli che credono nell’ispirazione, e che si dovrebbe cercare di scrivere soltanto libri ispirati e necessari, almeno per sé stessi.
Come nascono i tuoi personaggi?
I personaggi sono come ombre e fantasmi: alcuni ci abitano già ma non hanno ancora una voce, altri sentono di colpo il bisogno di visitarci, nascono da un incontro. Per me sono i più fedeli compagni di viaggio che ho avuto durante il mio ormai trentennale pendolarismo sui treni regionali.
Quali sono i tuoi miti letterari?
Sono così tanti che ci vorrebbe molto tempo per dirli tutti. Il mio cielo di lettore è affollato, e ogni tanto si aggiunge una costellazione nuova. Gli astri che fanno più luce, e che per me sono come stelle polari, sono però quelli che ho incontrato da ragazzo: Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Antonio Tabucchi, Primo Levi, José Saramago, Elsa Morante e Natalia Ginzburg. Ma a metterli in fila, mi accorgo che il mio è un cielo ormai di un altro secolo.
Il tuo rapporto con il Sud del mondo è molto forte (Sud America, Sicilia). Cosa ti affascina maggiormente di questi luoghi?
La luce. È la prima cosa che ti colpisce, appena esci da una stazione ferroviaria o da un aeroporto in qualsiasi Sud. E poi un’altra idea, alternativa a quella dominante, delle relazioni umane. Ma questa è forse una mia accanita utopia.
Nella tua scrittura c’è sempre un certo ritmo, ogni libro sembra accompagnato da una colonna sonora speciale. Ascolti musica mentre scrivi? Che genere di musica ti piace?
La musica la cerco scrivendo. Ha sempre fatto parte della mia vita. E mi piace dire che vorrei scrivere in levare, spostare gli accenti, togliere la terra sotto ai piedi al lettore. In levare, come la musica che amo, la bossa nova su tutto, e poi il fado, e ora il tango e la milonga. Si legge con le orecchie, e con le orecchie si scrive anche. Credo che l’immaginazione abbia posto accanto ai timpani. Lo stile che inseguo in ogni periodo è uno stile cadenzioso, che abbia cioè una sua cadenza musicale, e sono felice quando qualche lettore mi dice di averlo riconosciuto, di averci sentito come una musica, sulla pagina.
Cesare Garboli diceva: «Esistono due tipi di scrittori. Lo scrittore-scrittore e lo scrittore-lettore». Tu che scrittore sei?
Sono uno scrittore-lettore, non c’è dubbio. Ho l’idea che la letteratura sia sempre di seconda mano, una diceria, la prima che mette in dubbio sé stessa perché è costitutivamente una riflessione sull’impostura, e sulla menzogna, e sulla verità. Vado a prendere le parole che sono già state dette e cerco di riportarle a casa, di rendere visibile ciò che era già visibile, ma di cui non ci accorgevamo più. Ma quando torno indietro, ho un’altra storia tra le mani, una storia nuova, mai raccontata. È quello che mi è capitato con Mastro Geppetto, di fare i conti con uno dei libri più celebri della nostra letteratura. In fondo, non facciamo che commentare quello che altri uomini hanno vissuto e scritto prima di noi. Mi piacerebbe provare a, usando una paradossale definizione di Foucault, «dire per la prima volta quello che [è] già stato detto e ripetere instancabilmente ciò che, nondimeno, non [è] mai stato detto».
«I libri sono impastati con la vita» hai detto. E spesso nei tuoi libri c’è la passione, la crudeltà, i sogni, la rivincita. Se potessi scegliere, che personaggio saresti? Quale vita sceglieresti?
Non lo so, ma se potessi scegliere vorrei somigliare ai primi personaggi di romanzo nei quali mi sono riconosciuto: gente del circo, musicisti, acrobati, attori.
Nel tuo nuovo romanzo, Notturno francese, un treno preso per sbaglio permetterà al protagonista Vince Corso di intraprendere un viaggio meraviglioso nello spazio e nel tempo tra memorie, ricordi e parole. Sembra quasi un invito a mettersi in cammino, a non temere gli errori. Qual è stato quel treno che hai creduto sbagliato e che invece ti ha portato lontanissimo?
Per me è stato un treno reale. Il giorno in cui è iniziato il mio pendolarismo, credevo che sarebbe durato pochi mesi e che dopo sarei tornato a Roma. E invece non ne sono più sceso: quel treno è stato la mia università, la mia scuola, e lì sopra ho trovato me stesso e le mie storie.
Notturno francese è anche un romanzo in cui si parla di legami: familiari, con la letteratura, con certi luoghi. Quali sono i tuoi legami?
Credo che in fondo ognuno di noi abbia una sola storia da raccontare, sempre la stessa, in modo diverso, per cercare di capirla, di sviscerarla. Così, i miei legami sono pochi: la mia famiglia, la Sicilia, i miei libri, e soprattutto gli amici. Credo moltissimo nell’amicizia come la più vera forma di parentela che viviamo.
Attualmente ti occupi di narrativa italiana per la casa editrice minimum fax. Quali sono le prospettive future in termini di nuove voci, temi ricorrenti? Quali i punti di forza, quali le debolezze?
C’è una grande varietà e bisogna sempre lasciarsi sorprendere, niente di stabilito, di programmato, ma è molto difficile, soprattutto per l’editoria indipendente. I lettori più forti e con più possibilità hanno un’età elevata, e ci si chiede cosa succederà quando scompariranno le generazioni più grandi. Sta cambiando tutto, e forse sta cambiando anche il modo di conservare le storie. Credo ci sia in atto un ritorno all’oralità, e quindi alla lingua parlata, ascoltata. Mi piacerebbe che le strade delle nostre città si popolassero di nuovo di cantastorie. Ma ci sono pochi luoghi dove proteggere il senso delle parole. Uno di questi è il teatro. Il mio sogno sarebbe quello di far riaprire tutte le centinaia di teatri nati per il melodramma, e oggi chiusi, che ci sono nei nostri paesi e portarci la letteratura, a costo zero, portarci fisicamente le voci di chi racconta, far innamorare di nuovo della lettura i lettori più giovani.
Che consiglio puoi dare a chi vuole avvicinarsi alla scrittura?
L’unico consiglio sensato è quello di vivere nel modo più intenso possibile, e di imparare a guardare.
Ci puoi suggerire 5 libri imperdibili?
L’anno della morte di Ricardo Reis, Il sistema periodico, Sostiene Pereira, La giornata di uno scrutatore, Lessico famigliare, ma è impossibile fermarsi. Ne aggiungo uno, che ne racchiude molti, tutti insieme: Cent’anni di solitudine.
Hai la possibilità di bere un caffè con uno dei personaggi dei tuoi libri. Chi inviteresti?
Per la verità, mi piacerebbe di più invitare i personaggi degli scrittori che amo di più. Ho paura che se mi incontrassi con Vince Corso, in un caffè dell’Esquilino, avrei la sensazione di guardarmi allo specchio.
A cura di Claudia Borzi libraria di Le Promesse