Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo: racconti di morte e di vita. Recensione
Con Temevo dicessi l’amore (TerraRossa edizioni, 2023) Mattia Grigolo torna in libreria dopo l’esordio avvenuto neanche un anno fa con La raggia, edito da Pidgin. Abbiamo imparato a conoscere la sua poetica e il suo immaginario dai racconti che ha pubblicato su Rivista Blam! (qui e qui). Ed è proprio della forma racconto che Grigolo si avvale – quattordici, per la precisione – per narrare le vicende di Ofelia, un personaggio che ricorre lungo tutto il libro; la seguiamo nel corso della sua esistenza, raccontata da voci e punti di vista di volta in volta diversi.
Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo: la trama del libro
Questa raccolta di racconti parla innanzitutto di morte, e dunque di vita, di come ciascuno vive a suo modo la perdita, l’assenza, e di come si porta dietro i suoi fantasmi.
Il titolo è poetico, esplicativo, coraggioso: poetico per via del ritmo, un novenario con tutti gli accenti al posto giusto; esplicativo perché è una specie di spiegazione, di confessione, indica un soggetto alla prima persona svelando una paura; coraggioso perché allo stesso tempo non esita a pronunciare la parola colpevole. Il verbo è al passato, un imperfetto che si avvicina al sollievo; eppure, essendo anche una battuta di dialogo all’interno del primo racconto, col senno del poi, assume i contorni di una profezia, diventa l’annuncio di un timore, di uno svicolare (tentare di) e di un’analisi che attraversa tutti i racconti.
A pronunciare la battuta è Ofelia, la protagonista: un nome carico di richiami letterari, artistici più in generale, e in particolare della morte. Siamo con Ofelia dall’inizio, nella sua acerba giovinezza, poi in una maternità prima insicura e dopo perduta, addirittura in un gruppo di aspiranti suicidi; però non galleggia morta tra i fiori come nel dipinto di Millais, boccheggia vivissima tra le macerie di un ponte crollato e tutto quello che si è trascinato via (il pensiero va al ponte Morandi, a Genova, e ci ritorna a più riprese).
Temevo dicessi l’amore è più di una raccolta di racconti, perché ha una particolare struttura a incastro: quattordici racconti disomogenei per lunghezza e prospettiva (East River, per esempio, è composto di sole quindici righe) in cui i personaggi ritornano continuamente; a fare da collante: lo stile dell’autore. E sono racconti che, come i personaggi, crescono progressivamente: se nel primo racconto le due protagoniste, Ofelia e Chiara, sembrano non appartenere a nessun tempo, e sembrano quasi statiche o immature, i racconti successivi guadagnano in profondità, mistero e complessità; oppure, detto in un altro modo: il primo racconto contiene già i temi cardini, poi ai quesiti si aggiungono nuove prospettive, nuovi anni, nuova luce.
Non solo umano è l’amore
Ci sono due aspetti che emergono fin dal primo racconto come qualcosa di indissolubile dallo stile e che è anche una posizione, una riflessione. Da un lato, vi è ciò che sembra caratterizzare l’amore in questi racconti (amore in senso lato, diciamo relazioni strette non necessariamente implicanti il sesso), o anche quello che resta dell’amore, custodito lungo nel tempo della memoria: una lingua segreta (fatta di aneddoti o temi ricorrenti), un dialogo sempre aperto, che costruisce via via un passato comune, di complicità.
Dall’altro, vi è poi chi non condivide con l’uomo l’uso della parola: gli altri animali, coi quali si creano comunque fortissime connessioni e talvolta ossessioni (amore?). Il legame con il mondo animale si rinviene già in esergo, con la comparsa di un pesce e una rana, uno che resta, sognatore, l’altra che cambia e se ne va (Leo Lionni da Un pesce è un pesce). Via via nel libro ci sono un gatto, una volpe, un fenicottero e altri ancora; animali vivi, a volte cocciuti, e animali vivi solo nel ricordo, animali fantasmi. Gli animali sono anche un correlativo oggettivo del quale i personaggi sono consapevoli e nei confronti del quale sono premurosi (prendersi cura per sentirsi vivi? per far vivere le proprie relazioni?).
In uno dei racconti della raccolta si sfiorano i toni surreali: un coyote è prigioniero in un ristorante, Albert vuole liberarlo con l’aiuto di Brando, l’io narrante. Brando, però, è preso dai suoi problemi di coppia. Nel delineare il piano, Albert apre una finestra metanarrativa e ammette che quel coyote, una volta cucinato, avrebbe il gusto del pollo, oppure che «è solo un pretesto narrativo. È come in quei film dove la storia che viene raccontata è identica a mille altre che sono già state raccontate, allora il regista ci infila dentro qualcosa per stupire il pubblico. Però la storia resta sempre quella, banale e già vista».
La scrittura di Mattia Grigolo in Temevo dicessi l’amore
Con un linguaggio colloquiale e giovanile, Grigolo attinge con naturalezza a un sottosuolo culturale che appartiene ai personaggi e li definisce; probabilmente anche all’autore, che per professione tiene laboratori di scrittura creativa e dunque si confronta di continuo con altre voci.
Si incontrano le fonti più disparate in questi racconti: Emanuel Carnevali per esempio, Vito Acconci, ovviamente l’Amleto, Paperino, Laura Palmer, ma anche MasterChef.
La geografia narrativa nella quale si sviluppano i racconti è una mappa dei sogni e delle possibilità dei personaggi, da New York a Berlino a Milano alla Liguria. E l’impressione è che alcuni racconti si compiano, più che negli avvenimenti, nell’atmosfera che l’autore riesce a creare, fatta di dialoghi, stranezze, passioni, epifanie; come Ecco qualcosa di riduttivo, in cui Ofelia costruisce cavalli da carosello, e Regent’s Canal in cui abita con un ragazzo in una houseboat.
A cura di Roberta Garavaglia