Servirsi di Lillian Fishman: raccontare il desiderio femminile dopo il #MeToo. Recensione
Da quando il movimento #MeToo si è scontrato, nel 2017, con il muro di vetro che circondava il tema del consenso e della sessualità femminile, le narrazioni contemporanee hanno preso a confrontarsi sempre più spesso con le dinamiche di potere all’interno delle relazioni. Su Rivista Blam! abbiamo già parlato di Atti di sottomissione di Megan Nolan e di Esercizi di fiducia di Susan Choi: due romanzi che indagano la questione a partire da una narrazione inaffidabile (segno evidente della difficoltà di giungere a risposte nette, quando ci si muove nel campo dell’intimità). L’esordio di Lillian Fishman, Servirsi – appena portato in Italia da Edizioni e/o – si inserisce all’interno di questo filone romanzesco aggiungendovi un ulteriore tassello: la prospettiva da cui la storia viene raccontata, infatti, è quella di una ragazza queer, che si trova da un momento all’altro a gestire una relazione aperta con una coppia eterosessuale sopra le righe.
Servirsi di Lillian Fishman: la trama del libro
Eve, personaggio principale e voce narrante, è fidanzata da anni con Romi, una ragazza con cui ha trovato un equilibrio nella sua fragile vita da ventenne. Il padre, che non ha mai davvero capito la sua attrazione per le donne – è troppo facile, le dice, avere relazioni con qualcuno che è come te – la chiama di tanto in tanto per sapere se ha finalmente lasciato il suo impiego ordinario al bar in cui lavora da anni, ricevendo sempre risposte vaghe. Eve non sa cosa vuole fare, né ha sicurezze sul proprio futuro; sa, però, che c’è qualcosa per cui il suo corpo è programmato: qualcosa che non potrebbe dire ad alta voce a nessuno, ma che prende forma nel suo cellulare ogni volta che si specchia e si fotografa nuda.
«In quegli scatti si intravedeva qualcosa che andava oltre il desiderio, qualcosa di più duro e umiliante».
È quando decide di caricare uno di quegli scatti on line che conosce Olivia, una ragazza gentile che timidamente le chiede un incontro. La proposta che le farà la prima volta che si vedranno è semplice quanto insidiosa: «C’è un uomo con cui vado a letto, disse. Le tue foto ci sono piaciute, e abbiamo pensato che magari ti andava di incontrarci. Insieme». Dopo qualche esitazione, Eve deciderà di conoscere Nathan e provare ad avere con i due una relazione. Pagina dopo pagina, tutto quello che credeva di sapere rispetto ai propri desideri si dimostrerà essere la superficie di un abisso che è venuto il momento di sondare.
Soggetti desideranti, oggetti desiderati
Se c’è una cosa che la critica femminista ci ha insegnato, soprattutto a partire dagli anni Settanta, è che il desiderio femminile è un immaginario totalmente colonizzato dallo sguardo maschile. In un testo che si intitola Questione di sguardi, John Berger riassumeva in questi termini il tema:
«Dipingevi una donna nuda, perché ti piaceva guardarla, le mettevi in mano uno specchio e chiamavi il dipinto Vanità, condannando così sul piano morale la donna di cui avevi raffigurato la nudità per tuo piacere. La vera funzione dello specchio era un’altra. Esso serviva a far sì che la donna fosse connivente nel trattare sé stessa, innanzitutto, come veduta».
In altre parole, prima ancora di essere soggetto del desiderio, la donna ne è oggetto: l’abitudine a essere osservata dall’esterno e a trarne conferma identitaria è talmente radicata nel modo in cui viene educata e socializzata da rendere quasi impossibile l’emancipazione. Il romanzo di Lillian Fishman esplora esattamente questo conflitto, indugiando sul confine che separa la tensione interiore dall’alterità. Quello che ne ricava, tuttavia, è una forma indistinta che non offre il conforto di alcuna risposta definitiva. Il rapporto tra Eve, Olivia e Nathan si trasforma, di volta in volta, in triangolazioni improbabili, all’interno delle quali ciascuno aspira alla stessa, identica cosa: la validazione. In questo gioco dai contorni sempre più pericolosi, il corpo è il primo mezzo per ottenerla.
«Il giudizio di Nathan mi conferiva un’importanza che da sola non ero in grado di ottenere».
Un romanzo in cui «il personale è politico»
Nelle pagine di Servirsi «il personale è» profondamente «politico», per citare Carol Hanisch, perché il sesso è uno strumento per misurare la propria adeguatezza nel gioco delle parti. Se nel rapporto tra Eve e Nathan prevale una logica di potere talmente dissimulata da apparire, agli occhi di entrambi, inesistente, in quello tra Olivia e Eve il meccanismo continua ad agire colpendo, di volta in volta, una delle due. È per questo che la preoccupazione che la protagonista manifesta nei confronti dell’altra – troppo fragile, ai suoi occhi, troppo dipendente da Nathan – è straniante per chi legge: perché non esiste davvero libertà in questo rapporto, né trasparenza. Il desiderio che provano – o forse sarebbe meglio dire: di cui sono oggetto – agisce in loro come una forza maieutica che ne scopre le fragilità, oltre che le volontà segrete; eppure, ogni volta che Nathan interpreta i loro pensieri il dubbio che stia, al contrario, tentando di instillarli nelle loro menti è talmente forte da rendere il lettore incapace di orientarsi nella storia.
«Questa non è coercizione, niente affatto. Non c’è neanche un briciolo di coercizione. So quello che vuoi e te lo do. Tu non sei come Olivia, quello che desideri è diverso, è una specie di superficie. Anche se ne hai paura, io riesco a percepirlo».
Confondersi con l’altro
Come in Esercizi di fiducia, quindi, anche nelle pagine di Servirsi la prospettiva è frantumata, ma se in quel caso ciò accadeva a causa di un meccanismo narrativo che replicava le dinamiche teatrali, in questo è frutto di un continuo aggiustamento del sé sulla base dell’altro. La tecnica impiegata da Lillian Fishman, pertanto, è ancora più sottile, perché agisce dall’interno di un monologo che aspira a essere confessione, ma non riesce a tenersi lontano dal mascheramento e dalla dissimulazione.
La storia di Eve, Olivia e Nathan diventa così esemplificazione di quella precarietà identitaria che ci coglie tutti quando desideriamo: quando il nostro corpo si confonde con quello di un altro, fino a diventarne prolungamento; quando la conversazione diventa performance del sé e il sesso un linguaggio le cui regole devono essere ancora portate alla luce. E se questa fluidità è, indubitabilmente, qualcosa che nel nostro tempo avvertiamo con più urgenza, è pur vero che ogni rapporto interpersonale ha sempre il senso di una trasformazione, di un progressivo venire a patti con l’altro per diventare qualcosa che prima non sarebbe esistito.
La scrittura di Lillian Fishman in Servirsi
Partendo da queste premesse, la voce impersonata da Lillian Fishman ha tutte le caratteristiche di un narratore inaffidabile. La schiettezza che informa lo stile di scrittura è, pertanto, pura apparenza, persino quando indugia sulle contraddizioni con cui la protagonista deve fare i conti. Il racconto di Eve non è straniante poiché in-credibile, ma perché ciò che raccontiamo a noi stessi e agli altri è inevitabilmente una ricostruzione condotta a posteriori. Allo stesso tempo, è proprio questo il merito di Servirsi: la capacità di sfumare i bordi, di confondere verità e finzione; di insinuare il dubbio che non si sia mai davvero liberi quando è attivo il desiderio. E non importa, quindi, che Lillian Fishman non fornisca alcuna soluzione al problema. Importa che quel problema lo abbia portato alla luce, che abbia costretto i suoi lettori, almeno per un momento durante il corso della narrazione, a confrontarvisi. Perché è questo che dovrebbe fare la letteratura: porre domande. E se ce n’è una che il presente ci propone sempre più spesso è proprio quella su cui si concentra Servirsi: quanto c’è, di nostro, nei desideri che proviamo?
A cura di Rebecca Molea
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