Poverina di Chiara Galeazzi: quando un ictus ti colpisce a 34 anni. Recensione
Poverina di Chiara Galeazzi (Blackie edizioni, 2023) è un libro autobiografico, il racconto di una malattia che irrompe nella vita di chi, per la giovane età, proprio non se l’aspettava.
«Non è un trattamento anti-age dei più rapidi, va detto: richiede di stare quasi due mesi in ospedale, smettere di far funzionare un lato del proprio corpo, non avere nessuna forma di indipendenza o privacy, provocare un terrore costante nei tuoi cari anche quando non ce n’è motivo. Il filler è certamente più rapido, ma almeno quando la gente viene a sapere che ti sei fatta un ictus non pensa che sei vanesio, ma dirà comunque: “Sei così giovane!”».
Lo spoiler è che la storia finisce bene: Chiara torna alla sua vita e, anche se nel libro l’autrice sembra rifuggire da qualsiasi risvolto esistenziale o spirituale della vicenda (tutto quello che vuole, una volta uscita dall’ospedale, sono un paio di mocassini Gucci), lo stesso atto del raccontare è una forma di crescita, di rielaborazione. Perché di certe cose, anche se non lo si ammetterebbe mai, abbiamo bisogno di parlare.
Poverina di Chiara Galeazzi: la trama del libro
Chiara è una giovane autrice e conduttrice radiofonica, sull’onda, che vive nella Milano da bere per quanto si possa bere ai tempi del covid. Il suo passatempo è guardare su YouTube video di gente con velleità artistiche che la divertono e la consolano, o la fanno arrabbiare nel caso in cui gli youtuber in questione raggiungano una certa, a suo avviso immeritata, fama. È in un pomeriggio così che il suo braccio sinistro inizia a formicolare. Un’esperienza di anni in psicosomatica più qualche amicizia fidata la inducono a concludere che sia un attacco di panico, e un amico le porta uno Xanax che lei inghiottisce sperando passi tutto. Ma il malore non passa e Chiara si ritrova ricoverata nella Stroke Unit del Niguarda di Milano. Diagnosi: ictus. Intorno a lei solo over 65. Il libro racconta dell’odissea dentro l’ospedale (una saga con tanto di alleati, antagonisti e mutaforma), del percorso di recupero fisico e di quello per riappropriarsi della socialità modaiola milanese alla quale la protagonista vuole tornare, ma che si rivela inadeguata ad accogliere quello che le è accaduto. «Poverina» è la parola che Chiara si sente rivolgere più spesso.
La sottile linea rossa tra sani e malati
La malattia, l’inefficienza è qualcosa che la società capitalistica occidentale ha espunto dalla sua quotidianità. I malati li confiniamo negli ospedali (dei quali gli «onesti» dicono di avere la fobia, come se ci fosse chi ci va volentieri), gli anziani nelle case di riposo. Mentre i sani e i giovani, finché sono tali, vanno a bere spritz in locali cool, ad affogare nei calici lo stress di una vita disumana e di lavori insoddisfacenti. Da qui nasce la sequela di disturbi (descritti così bene dall’autrice) che non consideriamo patologia, ma accettiamo come parte del pacchetto «vita moderna». Avendola cancellata dalla pratica del quotidiano, perché spaventati dall’incapacità di gestirla, abbiamo perso ogni strumento per affrontare la malattia e l’imbarazzo, che credevamo di aver fatto uscire dalla porta, è rientrato dalla finestra.
Poverina parla di questo. Di come pochissime persone, molto vicine a Chiara, abbiano saputo supportarla e di come tutto il resto del mondo riusciva solo a chiederle «come stai?», aggrottando le sopracciglia, in un maldestro tentativo di empatia. Di come i medici, tra i buoni di questa storia, parlino a volte a sproposito e non siano del tutto a loro agio, neanche loro.
Del pensarci macchine e scoprirci umani.
La scrittura di Chiara Galeazzi in Poverina
«Gli ictus, come i figli, è meglio averli da giovani».
La scrittura di Galeazzi, dirompente e divertente fin dall’incipit, racconta con leggerezza e autoironia un percorso di guarigione che tra le righe si percepisce costellato di buchi neri e paure confessate solo a metà. Il registro è colloquiale e riproduce con verosimiglianza gli scambi e i pensieri dei momenti importanti della vita, quelli in cui non c’è tempo per la diplomazia o l’educazione. Scorrendo le pagine sembra di sentirla raccontare l’intera vicenda ai microfoni di Radio Deejay: c’è quella verve che mischia il basso e l’alto, che passa con disinvoltura dal commentare l’outfit di una pop star ai Grammy alla narrazione del proprio stato di salute, fino alla sua sudata riconquista.
A cura di Sara Benedetti