Nina sull’argine di Veronica Galletta: costruire per ricostruirsi. Recensione
Abbiamo conosciuto Veronica Galletta con un romanzo che sapeva di crescita e guarigione (Le isole di Norman) e non c’è da stupirsi se il suo secondo libro – Nina sull’argine, pubblicato da minimum fax – procede nella stessa direzione, in uno scavo che è, al contempo, psicologico e materiale.
Nina sull’argine: la trama del libro di Veronica Galletta
La protagonista del romanzo si chiama Caterina, e di mestiere fa l’ingegnera. Questa parola, che sembra quasi stonare quando la si sente per le prime volte, è il segno più evidente della marginalizzazione a cui Caterina è sempre stata obbligata, in quanto donna che cerca di affermarsi in un campo prevalentemente “maschile” che la avverte come un elemento estraneo, non armonico.
Le cose cambiano quando le viene assegnato il primo cantiere, quasi per caso, dopo che un’indagine improvvisa ha dimezzato il personale del suo studio. Il lavoro che dovrà affrontare si rivelerà sfidante sotto qualsiasi punto di vista, perché Caterina non si è mai trovata ad applicare le mille nozioni studiate tra i banchi dell’università: non conosce le sfumature, gli aggiustamenti, gli scarti tra la teoria e la pratica. Oltretutto è una donna, una macchia nera su una tela bianca: nessuno crede che sia capace di dirigere un cantiere, nessuno la percepisce come adeguata al ruolo che le hanno affidato.
«È stato un anno faticoso, e ti sei sobbarcata il cantiere peggiore. E allora mi sono detto: diamo un po’ di respiro a questa ragazza, diamole un incarico più leggero. Magari qui, in ufficio, Caterina»
A rendere tutto più difficile è l’abbandono di Pietro, il compagno di una vita, che un giorno sparisce come se non ci fosse mai stato e lascia un vuoto con cui Caterina dovrà fare i conti.
Un romanzo d’introspezione
Date queste premesse, Nina sull’argine si costruisce come un lungo viaggio d’introspezione e crescita che trova nell’immagine del cantiere in fieri una sorta di correlativo oggettivo. Caterina prende le misure, costruisce l’argine, progetta sistemazioni e calcola distanze; a volte sbaglia, e allora deve ricominciare da capo: deve ri-costruire, riconsiderare i dati, aggiustando le formule fino a farle combaciare con la realtà, con le sfumature del mondo in cui è immersa. È un lavoro pieno di intoppi, soddisfacente quanto più è stato frustrante il percorso, lo sforzo, la pazienza di saper mettere insieme ogni cosa con cura. E questo lavoro combacia, perfettamente, con quello che deve fare su se stessa, giorno per giorno, combattendo con le nausee e le insicurezze, con la paura di non essere all’altezza, di essere esattamente come tutti credono: impreparata e inaffidabile.
Un libro sui fantasmi e sulle cose che bisogna lasciare andare
Parallelamente a questo filo della narrazione se ne sviluppa un altro, che ogni tanto fa capolino tra le pagine e si imprime nella memoria per un carattere diverso, un tono più anziano e malinconico, come quello di chi ricorda qualcosa che è ormai diventato inafferrabile. Nina sull’argine è, infatti, un libro di fantasmi, nel senso metaforico del termine. È un romanzo sul passato e sulle cose che bisogna lasciare andare. Sui segreti che ci portiamo dietro e sull’amore che non finisce, neanche dopo anni, ma si tramuta in una solitudine ostinata e discosta, impenetrabile agli altri.
L’umanità di Veronica Galletta
Come ne Le isole di Norman, il microcosmo a cui dà vita Veronica Galletta vibra e respira: prende forma dai drammi privati che si intuiscono dietro uno sguardo sfuggente, come quello di Bernini, o dalle rivendicazioni cieche di Musso, che come un moderno Don Chisciotte si ostina in un’inutile lotta ai mulini a vento. È per questo, forse, che ci si affeziona facilmente ai personaggi di questo romanzo. Si intuisce una vicinanza, un’appartenenza comune: quella vulnerabilità che anche noi abbiamo imparato a soffocare.
Leggere Nina sull’argine è come avere una lente d’ingrandimento su quello che ci rende umani: le sviste, i cambi di rotta, i vicoli ciechi, le sbavature e le ripartenze. La voglia di camminare da soli e la paura di non esserne in grado. L’entusiasmo, infine, di scoprire quant’è bello il mondo quando ci si regge sulle proprie gambe.
a cura di Rebecca Molea