Niente di vero di Veronica Raimo: un romanzo onestamente disonesto. Recensione
Candidato al premio Strega 2022, Niente di vero (Einaudi, 2022) è un memoir che stupisce per la sua capacità di giocare con un meccanismo delicatissimo: l’attendibilità della voce narrante. Veronica Raimo riesce a narrare la storia della sua famiglia e dei suoi anni di formazione senza però avvalersi del romanzo di formazione. La protagonista si fa beffe di sé stessa mentre capovolge con un guizzo malizioso e brillante le logiche evolutive del percorso formativo.
Niente di vero di Veronica Raimo: la trama del libro
In Niente di vero, l’umorismo è il principale legante di una storia destinata altrimenti a subire deviazioni, salti temporali, false partenze, revisionismi e piccole aggiunte succose che pongono in una prospettiva diversa gli episodi narrati.
Piuttosto che seguire uno sviluppo lineare, la narrazione si va agglutinando per temi: le insistenze di una mamma ansiosa che non fa che anticipare la morte dei figli; lo zelo di un padre che adora costruire tramezzi dentro casa in nome di una particolare idea di ordine e decoro; le piaghe dell’infanzia della protagonista, ovvero la noia e la stitichezza, le idiosincrasie del rapporto con il fratello – Christian Raimo – anche lui scrittore dal talento precoce, il legame con un nonno paterno premuroso e di poche parole e una nonna materna ingombrante, a tratti imbarazzante, che mina in ogni modo l’autostima della protagonista. Si parla anche di sesso, di coppie, di fughe adolescenziali, del complicato rapporto con il corpo o della fatica di confrontarsi con un’identità sfuggente che passa necessariamente dallo sguardo degli altri. Tra questi, un ex compagno che bolla lo stile letterario della protagonista come «algido» o la madre, convinta che la figlia sia «brava a disegnare», al punto da farle ammettere: «[…] è così che mi sento in ogni istante della mia vita: ma sì, dai, facciamo che sono io».
La narrazione esplora tutte le fasi della vita senza seguire un preciso ordine cronologico: si va dall’infanzia all’età adulta e si torna indietro. Da questo flusso di scene familiari fatto di episodi esilaranti o sconcertanti (e a volte entrambe le cose), emergono due aspetti dolorosi: da una parte, la malattia e la morte del padre e, dall’altra, l’allontanamento di un’amicizia.
La protagonista sembra rimproverare a sé stessa non solo la tendenza a essere imprecisa rispetto alle vicende narrate, ma anche l’abitudine a sparire o a essere scostante nelle svolta chiave dei rapporti importanti.
Con un’onestà spiazzante, il romanzo si chiude su un’ammissione di inadeguatezza che mostra al lettore il motivo del moltiplicarsi delle versioni inattendibili.
Racconto di sé e racconto familiare in Niente di vero
Che cosa impariamo da una storia che è dichiaratamente piena di falle? Capiamo, forse, che l’unica verità sta nell’ammettere di essere disonesti e che l’umorismo è un modo intimo e universale di mostrare le fragilità, le amarezze e le meschinità.
Il romanzo è pieno di confessioni. A proposito della scusa di «essersi addormentata» addotta per motivare l’assenza da un festival letterario, l’autrice afferma: «[…] non è mai importante la credibilità, ma l’autosuggestione. Finisco per convincermi che non sto mentendo, esiste una versione della mia vita in cui soffro davvero di narcolessia invalidante». L’idea dell’autosuggestione rappresenta perfettamente l’atteggiamento spregiudicato della protagonista nei confronti della menzogna come parte creativa e liberatoria del processo di costruzione di sé e degli altri.
Niente di vero è anche un romanzo sui rapporti di famiglia e le relative disfunzioni, e sulla collocazione che ognuno di noi ha al suo interno; un racconto dal tratto mitologico in cui le madri, i padri, i fratelli e i nonni assumono, a volte, le sembianze di creature leggendarie, ossessive; e altre volte invece le forme dell’insicurezza e della fragilità.
Grazie a una prosa ironica e brillante, l’autrice mette in scena le nevrosi e le meraviglie della famiglia da cui proviene. A questo proposito, l’incipit è una dichiarazione di intenzioni: «[…] quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi».
Con uno stile tagliente, diretto, ironico, ricco di immagini, eppure privo di ampollosità e mai indulgente, questo romanzo ci trasmette il senso ambiguo e insieme terapeutico di confrontarci con le contraddizioni che ci rendono ciò che siamo.
a cura di Annalisa Maitilasso