Murene: la Storia e il Mito nel nuovo libro di Manuela Antonucci. Recensione
La vecchia prepara l’acqua e l’olio, inizia a recitare delle preghiere, poi sbadiglia. È maluocchiu, è stata una fimmana mala, bisogna intervenire prima che diventi grave. Comincia la litania, il rito – prendi l’olio, mescolalo nell’acqua, stai attento: bisogna bisbigliare sottovoce le parole giuste, le parole antiche. Il male andrà via, ne puoi essere certo, è la natura, funziona così da millenni, l’importante è saperne interpretare i silenzi. E allora stai zitto e ascolta, caro lettore, perché oggi la terra sta parlando proprio a te, e dalle radici, forse, si innalza il sussurro del sangue che chiede vendetta.
Murene: la trama del libro di Manuela Antonucci
Murene, l’esordio di Manuela Antonucci, pubblicato da Italo Svevo Edizioni, è uno di quei libri in cui, ancor prima dei personaggi, a muovere le fila della storia sono i ritmi antichi della terra, del sangue, della vendetta e della rivalsa. Siamo nel 1950, e nei campi inizia a trapelare lo scontento: i padroni non hanno concesso le terre promesse, c’è la fame, la povertà – io come campo fino alla fine del mese? È il momento dell’occupazione, ormai lo sanno tutti, bisogna organizzarsi e fare sentire la propria voce. Ernesto e Peppino fanno avanti e indietro dall’associazione, indicono riunioni, pian piano tutto il paese sembra svegliarsi. Questo romanzo è un mosaico di voci: c’è la Pietra, la vecchia del paese che sa togliere il fascino; Anna: bella, giovane, empatica, decisa, che ha raccolto tutte le lacrime di Tonino. E poi c’è Pompilio, che torna dopo anni a casa indossando la tenuta da maresciallo, per mostrare a tutti che alla fine ce l’ha fatta anche lui, che è riuscito a levarsi via lo scotto di essere figlio di un criminale. Sembrano storie diverse, svincolate tra loro, eppure c’è qualcosa che le unisce, in fondo, qualcosa come un seme comune. Sono tutti figli della stessa terra, il Salento, questa terra che dà poco e toglie tanto, in cui per sopravvivere bisogna imparare a governare la natura, più che l’alfabeto. E poi c’è una notte, una terribile notte che li ha segnati tutti: quella in cui Anna è scomparsa. Era il giorno dell’occupazione, Anna doveva incontrare Ernesto al pozzo, finalmente ce l’avrebbero fatta. C’era fermento, nell’aria, si sentiva sulla pelle, nelle vene – forse Anna non verrà, pensa a un certo punto Ernesto, ha capito che è meglio stare con la bambina, è il caso di andare, poi lei mi raggiungerà. Ma Anna non arriva, e da quel momento il sangue e la morte si insinuano nelle case e nei pozzi. Chi ha visto? Chi è stato? Dov’è finita Anna?
Un romanzo corale su una terra abbandonata
Nonostante queste premesse, Murene non è un giallo. E non è neanche un romanzo di storia. Murene è un racconto che sgorga dalle viscere, dalle pietre e dai campi, che dà voce, prima di tutto, a una terra abbandonata a se stessa. È il 1950, come dicevamo, e non è un caso che nello stesso periodo Ernesto De Martino, l’intellettuale rovesciato, iniziasse a fare i suoi primi viaggi di esplorazione nelle terre salentine e lucane, pronto a raccontare quel «regno degli stracci» che per troppo tempo era stato dimenticato. Era un impegno umano, il suo, perché quei contadini, ingiustamente considerati come fuori dalla storia, stavano in realtà lottando giorno dopo giorno per viverla, la Storia, quella con la S maiuscola. E lottare significava costruire un regime di sopravvivenza fatto di riti, fascini e magie, oltre che di rivoluzioni sui campi: un regime in cui fosse ancora possibile pensarsi e pensare il futuro. Manuela Antonucci torna su queste stesse tracce, con incredibile empatia: la sua è un’indagine romanzesca che dà voce a uomini e donne abbruttiti dalla fatica ma vivi, speranzosi, a volte lacerati interiormente. Ogni personaggio di questa storia si porta dietro, infatti, una ferita, un passato fatto di violenza o di perdita. E proprio per questo ciascuno ha dovuto imparare, per se stesso, l’arte della sopravvivenza. Tonino, per esempio, sta affacciato sul mare – quel mare che gli ha portato via il padre e che, paradossalmente, accoglie ogni sua paura. Nino, il padre di Anna, corre su e giù col trattore, tutto preso dalla costruzione del falò più grande di sempre, quello che arriverà a toccare persino il cielo. E poi ci sono Salvatore, Maria, Pompilio: conoscono tutti il rumore pesante dei passi ubriachi e delle botte, le notti passate a soffocare le lacrime sotto al cuscino per non appesantire la mamma. Murene è dedicato a tutti loro, alle loro vite sottotraccia. Manuela Antonucci li ritrae mentre sono spaventati, emozionati, impauriti, sull’orlo del fallimento, lacerati, ossessionati da una furia truce o, al contrario, pronti a fare squadra per i propri diritti. E in questo racconto non c’è pietismo, ma uno sguardo attento e partecipe: l’unico adatto ad una storia umana relegata, per troppo tempo, ai bordi.
Il Mito e la Storia
Sebbene il romanzo racconti uno spaccato di storia, è inevitabile rintracciare, tra le righe, certi ritmi tipici dei miti classici. Murene racconta di vita e di morte, di sangue e di terra, di violenze e senso di comunità. Non ci sono oracoli, ma ci sono magàre, morti che ritornano, e al posto degli dei, con i loro vaticini inoppugnabili, c’è il ritmo antico della terra, sempre pronto a chiedere il conto. La vicenda di Anna assurge al simbolo di un sacrificio, e tutti i personaggi che le ruotano attorno vengono, in modi diversi, investiti da questo destino nefasto. Il rito magico-religioso diventa, così, l’unico strumento per sciogliere il mistero – e l’acqua, insieme all’olio, fanno da purga per il male ingoiato e cementificato negli anni.
«Tutto si sussurrava quando bisognava cacciare via la sfortuna […] Liberami da ogni male, mio signore, se lo era ripetuto nella testa quando la Pietra aveva chiuso gli occhi e si era messa a farfugliare; ed era successo che l’olio, senza un’avvisaglia, si era dissolto dentro l’acqua. Liberaci tutti, pensò, mentre un dolore acuto si fermava proprio sotto l’ombelico.»
Il romanzo di Manuela Antonucci è uno dei migliori esordi dell’ultimo anno. È una storia avvolgente, ricca di suggestioni e richiami al passato. E, come dice il nome della collana che l’ha accolto, è una vera e propria incursione: nel mondo del Salento e in un tempo solo apparentemente lontano.
a cura di Rebecca Molea