Malinverno di Domenico Dara: la musica triste delle cose perdute. Recensione
C’è un odore inconfondibile per gli amanti della letteratura: è quello che si respira a pieni polmoni appena varcato l’ingresso di una libreria o quando si cammina tra gli scaffali di una biblioteca. Lo ricercavamo da ragazzi, avidi, quando a settembre arrivavano i libri nuovi di zecca per l’anno scolastico che si apprestava a iniziare. È un odore che sa di casa, di promesse, di nuove avventure. Timpamara – il paesaggio in cui si ambienta il nuovo libro scritto da Domenico Dara, Malinverno, uscito per Feltrinelli – ha questo profumo. In passato qualcuno vi ha costruito una cartiera, e da quel momento ogni tanto si vedono svolazzare, su per la testa degli abitanti, fascicoli pieni di parole e storie mai sentite prima. I cittadini di Timpamara li afferrano al volo, incuriositi; a volte se li scambiano, quando capiscono che quella storia non ha a che fare con loro. E improvvisamente il paese si popola di personaggi che sembrano usciti dai libri: le mamme iniziano a chiamare i propri figli Achille, Godot, Agamennone, Victorùgo; i bambini fanno a gara per capire chi possegga l’etimologia più importante. Sembra di essere immersi in una fiaba, e forse, in qualche modo, è così. Perché Timpamara è un luogo magico, come lo sono un po’ tutti i luoghi inventati; è un luogo in cui la realtà perde i suoi contorni, si slabbra, lascia intravedere un bagliore di magia. E negli incroci, tra le vie strette e striminzite, fa capolino, di tanto in tanto, la scintilla dei desideri irrealizzati.
Malinverno: la trama del libro di Domenico Dara
In un posto così, è quasi scontato che si possa trovare un personaggio come Astolfo Malinverno: zoppo fin dalla nascita, malinconico, sognatore, amante dei libri. Il suo mestiere è quello del bibliotecario, ma ben presto a questo incarico se ne aggiunge un altro, solo apparentemente inconciliabile. È successo che il custode del cimitero è stato costretto da una caduta a una pensione anticipata, e a Malinverno viene chiesto di occupare il posto rimasto vacante. Dopo qualche esitazione, accetta, e così si trova, nel tempo libero, ad aggirarsi tra le tombe, incuriosito dalle storie silenti che ogni nome nasconde. Malinverno è a caccia di racconti, si capisce, ed è forse per questo che un giorno rimane ipnotizzato da una lapide senza nome, su cui si trova solo una foto: quella di una donna bellissima. Da quel giorno Malinverno le farà spesso visita, per raccontarle le sue giornate, per cercare di capirne di più. La chiamerà Emma, come la protagonista di Madame Bovary, perché è convinto di scorgere nei suoi occhi la stessa malinconia, lo stesso bisogno di immaginazione che aveva trovato tra le pagine di quel libro. Poi, un giorno, inaspettatamente, appare al cimitero una donna misteriosa: ha gli stessi occhi della ragazza della foto, la sua stessa bellezza. E, forse, è la stessa persona.
Un libro sul desiderio e sul sogno
Qualcuno ha definito Domenico Dara un nuovo Márquez, per il gusto che i suoi romanzi lasciano trasparire verso il realismo magico. E infatti, in questo libro, le cose sono come intrappolate in un’atmosfera fiabesca, fuori dal tempo, a tratti irreale. Ma non potrebbe essere che così, per un romanzo che racconta l’amore per i libri, la fantasia, l’immaginazione. In fondo, Malinverno si chiama Astolfo, e a chi abbia un po’ di dimestichezza con la letteratura questo nome non risulterà estraneo. Basta fare qualche passo indietro, sino al 1516: siamo a Ferrara e Ariosto pubblica un poema sconvolgente. Parla di un paladino, Orlando, che è diventato furioso per amore di una donna. Il suo senno è fuggito sulla luna, e allora è necessario che qualcuno vada a recuperarlo, perché c’è una guerra da vincere, ci sono dei turchi da sconfiggere. Parte Astolfo, con tutto il coraggio che ha, e alla fine del poema arriva in questo luogo magico in cui vengono conservate tutte le cose perse della terra. Recupera il senno di Orlando, torna da lui, e il poema può concludersi. Il nome di Malinverno, quindi, viene proprio da qui, da questa maestosa architettura cinquecentesca in cui realtà e fantasia si mescolano per raccontare di uomini che inseguono i propri desideri, sempre in corsa, mancanti e imperfetti. E Malinverno ne è un ottimo rappresentante, non solo perché ha una mancanza esteriore, visibile – zoppica, come dicevamo -, ma anche perché la sua è una vita di sogni e mediazioni, immersa nell’immaginazione, nell’incanto delle parole, delle cose impossibili. Non è un caso che sia innamorato di Emma Bovary, la donna che, rimasta affascinata dai romanzi che leggeva da ragazza, vive insoddisfatta, pronta a fuggire continuamente dalla realtà. E allo stesso modo, non è un caso che l’altro personaggio letterario chiamato più spesso in causa sia Don Chisciotte: anche lui, vittima dell’immaginazione, delle gesta cavalleresche di cui ha letto; sospinto, perennemente, da immagini inafferrabili e vacue. Malinverno è un uomo scollato dalla realtà, sospeso; è il simbolo di un incessante vagabondaggio nella terra del sogno e della letteratura. Ed è per questo che il romanzo di Dara ha il sapore di una fiaba, di una cosa antica: perché è immerso in questa dimensione pastosa, immaginifica, sospesa.
Malinverno: una fiaba sulla morte
In questo mosaico, a un certo punto, compare la morte, che accompagna le vicende come una musica triste. La avvertiamo come una carezza dolce, una tentazione. Senza ombra di dubbio, è una compagna con cui è necessario imparare a convivere. Perché la fine – per quanto sia amara, ineluttabile – ha le sembianze di un’ombra che si nasconde dietro la porta. È ovunque: nelle cose perdute, nelle cose mai avute; è nell’amore che non abbiamo ricevuto e in quello che ci è stato strappato troppo presto; è nei sospiri di una donna di fronte a una lapide, nelle cuffie di un uomo che cerca di percepire storie dimenticate. La morte è una nebbia, persistente, che ammanta l’esistenza di uno strato di abbandono. E Malinverno, forse perché è un custode di anime scomparse, lo capisce fin troppo bene. Non ha paura di immergersi nel lutto, ma è come se fosse, al contrario, stregato da quella magica incompiutezza di cui sono rivestite le cose scomparse. Malinverno è come un ponte, un mediatore tra quello che c’è e quello che non c’è più: la sua storia sembra suggerirci, di sbieco, che forse non c’è poi tanta differenza tra chi rimane e chi va via.
Una lingua dal sapore antico
La lingua del romanzo non può che confermare le atmosfere di cui abbiamo appena parlato, soprattutto se viene giostrata da uno scrittore che ha costruito su questo elemento la sua riconoscibilità. I primi due libri di Domenico Dara, infatti, sono scritti in un misto di dialetto calabrese e italiano regionale, ed è così che affrescano il microcosmo contadino di Girifalco, che è un pullulare di falegnami, postini, madri che attendono i figli partiti dalla guerra, bottegai. Malinverno, invece, è un romanzo che segna una scelta di emancipazione: qui non c’è più la sfumatura vernacolare della lingua, ma un lavoro più sottile, che interviene sull’italiano per modellarlo dall’interno. E allora lo stile si fa antico nella sintassi, nella scelta lessicale, mescolando la costruzione verbale tipica della letteratura pre-settecentesca a quel linguaggio un po’ polveroso con cui si esprimono i nostri nonni e che potremmo ritrovare in un libriccino di fiabe per bambini. In questo lavoro non ci sono sbavature o rallentamenti, tutt’altro: c’è la corposità della lingua viva, che cattura e coinvolge. Domenico Dara, nel sussurrare questo racconto, come un moderno cantastorie, rapisce e incanta. E arrivati alla fine di questo viaggio, sembra di aver perso un amico. Perché Malinverno – insieme a tutto l’intrico di storie che lo avvolgono – ci ha raccontato di vita e di morte, di amori sfiorati e compianti; di lutto, abbandono, malattia; di cose perdute e riconquistate; della magia delle parole, dell’incanto di un sogno.
a cura di Rebecca Molea