L’oblio di Philippe Forest. Camminare a tentoni nel nulla. Recensione
Un giorno ti svegli, sembra tutto uguale, finché, d’improvviso, ti rendi conto che c’è qualcosa di strano. Vai indietro con la mente, spulci nelle cose che hai fatto, nei sogni, e, improvvisamente, eccola lì: la rivelazione. Hai perso una parola. Non riesci a ricordarla, anche se ti accapigli: semplicemente, non c’è più. Allora, l’esperienza inizia a sfaldarsi; la mente vaga sulla scorta della speculazione. Una domanda si impone, nel vuoto che si profila: come si fa a orientarsi quando il linguaggio frana?
L’oblio: la trama del libro
L’Oblio, il nuovo romanzo di Philippe Forest, parte da qui: da questo nucleo di ricerca. Il protagonista del libro – che per noi rimarrà sempre, e non casualmente, senza nome – è un uomo perso, ripiegato su se stesso, che cerca di trovare il filo delle cose che ha perduto. È un filosofo, a modo suo, che ha scelto come nucleo riflessivo le possibilità della parola e il ricordo. Paradossale, si direbbe, dato il titolo: eppure, se c’è una cosa che il libro lascia intravedere, sopra a tutto il resto, è che il ricordo si costruisce soprattutto a partire dalla consapevolezza che qualcosa si è perso. «Ricordo perché so di aver dimenticato», dice il protagonista. E allora è qui, il senso del raccontare: nel tentativo, estremo, di restituzione; in questa indagine riempitiva.
Perdere la parola: smarrire il sé
La trama, come dicevamo, è semplice, e forse potrebbe riassumersi in queste poche righe: ma il punto, in questo romanzo, non è tanto nella concatenazione di eventi, quanto piuttosto in ciò che essi comportano. Perché la perdita – sia essa di un oggetto o di un essere umano – è un evento che ci accomuna tutti: è il segno di qualcosa che frana, nell’universo delle nostre esistenze. E quando a perdersi sono le parole – quelle che usiamo per costruire la storia, la nostra storia, il nostro passato e il senso del nostro stare al mondo – allora, ad essere messa in causa, è la nostra stessa identità.
Un mondo indistinto
Il mondo de L’oblio, quindi, è un mondo verginale, che assume il carattere dell’indistinto; è un paesaggio latteo, nebbioso, in cui i confini si intuiscono appena. Per percorrerlo è necessario un atto di creazione, e infatti lo scopo del protagonista, forse, è proprio questo: costruire un’architettura di parole, fissare scorci (attendendo, paziente, che dal bianco della pellicola emerga un profilo, uno qualsiasi). La coscienza di conseguenza vaga, si arresta, esplora il senso della rappresentazione – indaga il linguaggio, lo mette a nudo, ne inquisisce le possibilità. E solo alla fine, dopo pagine di ricerca, approda alla catarsi, al senso ultimo del suo esistere: rileva la lacuna e la colma, in un complicato gioco meta-testuale.
Un romanzo introspettivo
Philippe Forest costruisce, così, un romanzo-contenitore, che abbraccia il dubbio, il flusso interiore, l’interrogazione continua. E alla fine, poi, forse è proprio questo il punto: e cioè che il senso dell’esistere non è nell’approdo, ma nel percorso precedente – nell’instancabile ricerca di ciò che si è e di ciò che si è perduto.
a cura di Rebecca Molea