L’invenzione di noi due, un libro di Matteo Bussola: (ri)costruirsi a partire dalla narrazione. Recensione
C’è un punto, all’interno della storia di una coppia, che può determinarne il crollo. E non è detto che questo crollo debba fare scalpore; non è detto che dopo ci siano soltanto macerie. Talvolta, più semplicemente, quella casa che si è costruita insieme, mattone dopo mattone, viene lasciata a se stessa. Capita, così, che un sottile strato di polvere si impossessi del mobilio, che presenze nuove e pallide rimpiazzino quelle che un tempo l’hanno abitata, come simulacri di ciò che è stato. Si tratta di un processo lento di cui quel punto non è che un approdo, una manifestazione esteriore. E allora ci si può interrogare, si possono passare in rassegna i propri ricordi, per quanto frammentari, tentando maldestramente di rintracciare presagi e avvisaglie. O, più raramente, si può provare a riavvolgere il nastro, a sperare l’improbabile – e cioè che quella casa, con un po’ di cura, possa tornare ad essere viva e accogliente come lo era un tempo.
L’invenzione di noi due: la trama del libro di Matteo Bussola
Se dovessimo raccontare di cosa parli L’invenzione di noi due (edito da Einaudi), potremmo iniziare proprio da qui. Perché Nadia e Milo sono una coppia ordinaria, stanca, logorata da una quotidianità che ha perso la voglia di raccontarsi. E infatti Nadia sembra spenta, rinchiusa in se stessa, persa in un recesso che giorno dopo giorno diventa sempre più lontano e inafferrabile. Non ha più nulla di quell’amore bellico che l’aveva sconvolta da ragazza, né dell’ardore che la rendeva selvaggiamente bella; piuttosto, assomiglia a un complicato enigma che non vuole lasciarsi risolvere. E Milo, dal canto suo, incapace di realizzare che tutto ciò in cui aveva creduto – e continua a credere – si stia spegnendo, si comporta come un antico sacerdote, ultimo e precario custode di una fiamma sempre più debole:
C’erano notti in cui, girandoci nel letto, ci capitava di sfiorarci appena con una mano, o con un piede, e quei fugaci contatti erano tutto ciò a cui restavo aggrappato, quel che mi permetteva di poter ancora pensare a un “noi”.
Quella storia era iniziata con le parole, quelle che riempiono le giornate di uno studente svagato, durante una lezione dell’ultimo anno del liceo. Ed era capitata quasi per caso, con una domanda a cui è sempre complicato rispondere: chi sei? Milo aveva risposto per gioco, ma il gioco si era presto trasformato in un dialogo appassionato, capace di rivelare – grazie quella naturalezza che è possibile solo tra sconosciuti – dettagli e speranze, segreti e paure. Avevano costruito, in un qualche modo, un rapporto che non si chiedeva niente e non prometteva destinazioni. Ma alla fine, nel più improbabile dei modi, quella destinazione l’avevano trovata, perché a volte ci si incontra a prescindere, per caso, in una festa a cui sei andato solo per accompagnare un amico.
E allora, quando ormai quel rapporto sdrucito sembra essere arrivato al limite della consunzione, Milo pensa di ripartire da lì, da quelle parole che li hanno legati da ragazzi. Le scrive una mail, fingendosi uno sconosciuto, perché crede che a volte è solo questione di inventarsi una nuova storia, una nuova narrazione del proprio amore:
il matrimonio è un racconto che a un certo punto s’interrompe perché abbiamo finito le informazioni, perché ci stanchiamo di costruire narrazioni di noi stessi per l’altro. […] Del resto, mi dicevo, cosa cerchiamo quando lasciamo, quando tradiamo, se non un’opportunità di ricostruirci dalle fondamenta, la sensazione che nulla sia andato storto, la possibilità di scrivere su un foglio nuovo?
Narrare per costruire, narrare per salvare
La letteratura, scriveva Proust, è la rivelazione […] della differenza qualitativa esistente nel modo in cui il mondo ci appare […] Solo attraverso l’arte possiamo uscire da noi, sapere cosa vede un altro di un universo che non è lo stesso nostro. È questa la prospettiva migliore da cui osservare L’invenzione di noi due, che si snoda proprio come un tentativo di sondare le possibilità della scrittura nell’avvicinare due universi che non sanno più riconoscersi. Nadia e Milo, lettera dopo lettera, si vengono incontro, si cercano, tentano di spiegarsi. In un qualche modo è come se riuscissero a comunicare per la prima volta da tempo, a vedersi privi dei filtri che indossano ogni giorno. E con quella stessa naturalezza con cui si erano raccontati da ragazzi – e che ancora una volta sembra essere possibile solo tra estranei – i due svelano i rovesci dei silenzi quotidiani, il fondo dietro certe espressioni vuote. Da questo scambio il passato emerge come una costruzione personale e interiorizzata, frutto della narrazione che ognuno fa a se stesso della propria versione degli eventi. Ma, allo stesso tempo, è solo e soltanto a partire da questo passato, che è necessario ricostruire, che si può, forse, fondare il futuro. In questo lavoro, fitto di contraddizioni, Matteo Bussola ci guida con l’esperienza e la voce di qualcuno che, come i protagonisti, ha imparato a scommettere tutto sulle parole. E riesce, così, a indagarne le potenzialità e le ambiguità – attraverso uno stile immediato, schietto, lucido.
Amare per inventare se stessi
L’amore che racconta L’invenzione di noi due è un amore costruito attraverso la pazienza di chi ha imparato a non lasciare andare troppo in fretta. E, proprio per tale ragione, è frutto di aggiustamenti continui, cadute, inciampi, rinascite. Amarsi, in questo libro, significa costruirsi, dare vita a un’invenzione di sé e dell’altro, insieme. E Milo sembra suggerirci che forse è tutto lì, il senso del nostro stare insieme: in quel racconto continuo e instancabile che continuiamo a tessere ogni giorno.
a cura di Rebecca Molea