Le isole di Norman di Veronica Galletta: una geografia dell’assenza. Recensione
Mappare un’assenza: sembra paradossale – che forma ha qualcosa che non c’è? – ma è proprio questo il compito di Elena, la protagonista dell’esordio di Veronica Galletta. Parliamo di Le isole di Norman: un libro che ha a che fare con il passato e con il senso di una crescita. Ma, soprattutto, un esordio che ha convinto talmente tanto i lettori da essersi aggiudicato, proprio quest’anno, il premio Campiello Opera Prima 2020.
Le isole di Norman: la trama del libro di Veronica Galletta
Elena vive in una famiglia disfunzionale, precaria, che si regge su una sottilissima trama di assenze e rancori taciuti. Decide di iscriversi all’università non troppo convinta, con il timore nascosto di perdere, così, il momento del crollo e la possibilità di opporvi rimedio. Per lo stesso motivo, da tempo, cataloga attentamente la geografia della sua quotidianità, attraverso mappe che restituiscono il senso di una resistenza intima e segreta – proprio come in una partita di battaglia navale. Disegnare, per Elena, è un modo per trattenere, per rimandare il disastro; ma è anche una strategia di comprensione, un tentativo di sbrogliare il mistero che avvolge l’identità della madre. Ed è proprio Clara, infatti, con la sua presenza fantasma, a guidare il racconto. Quando la conosciamo vive in una cameretta inaccessibile, in cima a una rampa di scale, e da questa fortezza solitaria dispone differentemente, giorno dopo giorno, pile e pile di libri. È così che costruisce quella che a Elena appare una milizia privata, un avamposto contro la vita e la sua aridità. Proteggersi sembra la sua unica condizione d’esistenza, e infatti Clara è una madre sfuggente, silenziosa, che si delinea per contrasti e non detti.
Un giorno di settembre il destino – fino a quel momento solo intuito – si compie, e la sua assenza diventa permanente. Elena si trova così obbligata a fare i conti con quell’ombra, con il proprio passato e con il segreto di un incidente che da bambina l’ha marchiata a vita. Sopravvivere significherà, allora, ripercorrere cicatrici – concrete e metaforiche – all’insegna di un viaggio di dolorosa emancipazione. E approdare vorrà dire aver dismesso l’abito dell’abbandono, aver compiuto la catarsi.
Un viaggio di costruzione e formazione a partire dalla memoria
Il viaggio – inteso come scoperta, rinascita, formazione, consapevolezza – è uno dei grandi topoi della letteratura mondiale. Si trova, per esempio, nel grandioso poema virgiliano, l’Eneide, che è il racconto della fondazione di una nuova civiltà e di tutti gli inciampi che questo percorso ha vissuto. Nelle pagine di quel libro il passato è un filo conduttore nella costruzione del presente: Enea è pius non solo perché obbedisce agli ordini degli dei, ma anche perché ha pietà filiale, e porta sulle spalle il peso di Anchise, il suo vecchio padre. E infatti la memoria di ciò che è stato riecheggia di capitolo in capitolo, continuamente, come se fosse un’eredità da ri-affrontare per acquisire la consapevolezza di ciò che potrà essere in futuro. Così è anche per Elena, nel romanzo di Veronica Galletta. Il suo viaggio è un percorso doppio a ritroso nel tempo: da una parte c’è il passato dell’infanzia, costellato da un trauma che sembra avere ancora qualcosa da dire, e dall’altra c’è il passato prossimo, con i silenzi della madre e la sua scomparsa. Compiere il viaggio significa muoversi concretamente, nei meandri dell’isola di Ortigia, sulle impronte della madre. Ma anche immergersi nei ricordi, nel proprio inferno personale, per risalire – come fa Enea – verso la meta, verso un nuovo io.
La mappa come orientamento narrativo
A guidare questo cammino sono le mappe, che sembrano essere gli unici dispositivi capaci di riannodare le fila di una storia caotica e incomprensibile. Elena ha bisogno di ridurre e semplificare per poter decifrare il mondo attorno a sé. E difatti i capitoli scorrono prendendo il nome delle caselle di una geografia sentimentale, che disegna il passato e guida il presente della narrazione. Allo stesso compito obbedisce la scrittura, e infatti Le isole di Norman è anche un romanzo-metafora sul senso delle storie, sui loro percorsi tortuosi e sulla necessità di immaginare. Elena, da questo punto di vista, non è solo una cartografa, ma anche una narratrice inconsapevole della propria esistenza e del suo piccolo universo.
Il microcosmo di Ortigia
Attorno a lei infatti si dispiega un microcosmo pullulante di personaggi, luoghi e storie. C’è, per esempio, Michele, il padre, che conduce una lotta sottocoperta scandita da teglie di parmigiana; c’è Filippo, un uomo dalla saggezza quotidiana e antica; e c’è Pietro, un pittore di strada che rincorre l’ispirazione del momento. È un mondo brulicante di vita, quello de Le isole di Norman, un po’ incerto: lo stesso che si nasconde nei vicoli o si disperde nelle piazze di paese, la domenica, durante il mercato. E in questo microcosmo, dominato dall’isola stregata, si racchiude tutto il senso dell’esistenza: la perdita e la riconquista, le speranze disattese e le ambizioni ostinate, la voglia di farcela e la paura di non riuscirci.
a cura di Rebecca Molea