La vita involontaria di Brianna Carafa: vivere la vita altrui in un romanzo ripubblicato che va oltre il Novecento
Ripubblicare gli autori dimenticati è una delle sfide più coraggiose e necessarie che una casa editrice contemporanea possa accettare. Cliquot lo fa da sempre, e da poco ha portato in libreria anche un delicatissimo romanzo del Novecento italiano per troppo tempo rimasto ai bordi. Parliamo di La vita involontaria, di Brianna Carafa, pubblicato da Einaudi nel 1975 e finalista, lo stesso anno, al Premio Strega.
La vita involontaria di Brianna Carafa, trama: un resoconto esistenziale
La vita involontaria è una memoria privata, un resoconto esistenziale che ripercorre le tappe di una formazione complessa e dissestata. A raccontare è Paolo Pintus, un ragazzo che si dimostra fin da subito inquieto, curioso, incapace di un contatto diretto con la realtà. Fin dal momento in cui si trova a dover decidere che università frequentare, infatti, si lascia guidare dalle parole degli altri, da sogni e progetti che non gli appartengono ma che gli appaiono irresistibilmente promettenti. Si trova così iscritto alla facoltà di filosofia di Vallona, un luogo lontano dalla propria cittadina natale e proprio per questo adatto a un nuovo inizio, a un’invenzione del sé. E tuttavia, anche in questo percorso, la vita si dimostra ancora una volta involontaria, come da titolo: trascinata, cioè, dalle decisioni altrui, sistema inerziale, incapace di aggredire la realtà se non attraverso un medium. È così che Paolo Pintus vive l’amore, il cambio di facoltà, la morte dello zio e tutti gli eventi che seguiranno nel suo percorso di formazione. Ed è così che si giunge all’approdo finale, che non sorprendentemente sembra piuttosto un ritorno all’origine, il bandolo di una matassa ritrovata, l’ultimo segmento di un cerchio che si chiude.
La scrittura come ricordo silenzioso e essenziale
In questo racconto lucido, ridotto all’essenziale, la voce di Paolo sembra quella di un vecchio ormai stanco, che vaga sulle impronte di ciò che è stato come se dovesse comporre un testamento di vita. La scrittura abbraccia eventi e sentimenti come farebbe il pennello di un pittore, scoprendo dettagli, disegnando atmosfere sospese, ricoprendo ogni cosa di una nebbia fumosa sotto la quale si intercettano spasimi di vita. Ogni pagina diventa così un sospiro, un silenzioso ricordo, una memoria che la penna deve fermare per sottrarla all’oblio del tempo e ricongiungerla in un disegno unitario. E in questo sforzo non si avverte mai la passionalità e la forza espressiva dei lottatori, quanto, piuttosto, un fermo lirismo – quello sguardo attento e distaccato che Svevo aveva attribuito ai contemplatori:
e io al silenzio anelavo, a un viaggio di cui non restassero tracce.
Un racconto di estraneità e incomunicabilità
Paolo, del resto, è più che mai un estraneo alla realtà, un inetto rivisitato che trova in questo atteggiamento l’unico mezzo di sopravvivenza in un mondo di miserie. E a nulla serve quel consiglio iniziale, pronunciato dalla zia – Paolo, vivi la tua vita. Non fare come me che non l’ho vissuta – perché essa si svela, man mano, insensata, possibile solo a patto di una rinuncia. Ogni essere umano è come invischiato nella propria solitudine, ostaggio dei propri sentimenti incomunicabili che invano tenta di esprimere:
Questo mi metteva a disagio, questo sospetto sempre respinto, che in realtà non ci si potesse conoscere, che il valore degli affetti e di ogni cosa fosse diverso per ciascun di noi. Che parlassimo lingue diverse. E che proprio questa diversità ci unisse ma, allo stesso tempo, rendesse estremamente precaria la nostra unione.
Ma La vita involontaria è anche un percorso di accettazione, di scoperta, nel solco della lezione lucreziana e dei moderni approdi psicanalitici. E alla fine è esattamente questa resistenza intima a rendere Paolo l’unico reduce, l’unico sopravvissuto del suo mondo: perché la sua truffa ostentata racchiude molta più autenticità di quelle storie che fingono verità inaccessibili.
a cura di Rebecca Molea