La città della vittoria di Salman Rushdie: un’epopea indiana tra mito e Storia. Recensione

 La città della vittoria di Salman Rushdie: un’epopea indiana tra mito e Storia. Recensione

L’ultima opera di Salman Rushdie, La città della vittoria (Mondadori, 2023. Traduzione di Stefano Mogni e Sara Puggioni), è un avvincente racconto dai toni epici, in cui tradizione storica e immaginazione si mescolano fino a confondersi. Ambientata nell’India del XIV secolo, la narrazione di La città della vittoria si innesta nella materia del mito rivelandosi così capace, pur raccontando di un mondo antico, di parlare di noi e del nostro presente.

 

La città della vittoria di Salman Rushdie: la trama del libro

La città della vittoria si struttura come la traduzione fittizia di un’antica epopea narrata da Pampa Kampana, protagonista dell’opera e personaggio parzialmente ispirato alla figura storica della principessa e poetessa Gangadevi. La storia copre gli oltre 200 anni della vita della protagonista. Attraverso i poteri celesti assorbiti dalla dea Parvati e da una manciata di semi magici Pampa Kampana farà nascere Bisnaga, letteralmente «la città della vittoria», capitale di un nuovo impero – una rivisitazione di quello di Vijayanagar che unificò l’India meridionale per oltre due secoli – fondato su solidi ideali, come il pluralismo e la parità di diritti tra uomini e donne. Ma la corruzione, il fanatismo religioso, gli intrighi e i conflitti politici ne decreteranno la fine.

Un’utopia femminista

Nel romanzo troviamo figure di donne che, a partire proprio dalla protagonista Pampa Kampana, si rifiutano di essere definite e determinate dagli uomini. Non a caso la scena che dà avvio alla narrazione vede la madre di Pampa Kampana compiere il suicidio rituale previsto per le donne rimaste vedove, buttandosi nel fuoco. Dopo aver assistito a questa scena cruenta, Pampa Kampana matura la decisione di sottrarsi alle regole della tradizione e autodeterminare il proprio destino: piuttosto «avrebbe riso in faccia alla morte e si sarebbe rivolta verso la vita. Non avrebbe sacrificato il proprio corpo solo per seguire nell’aldilà degli uomini morti. Si sarebbe rifiutata di morire giovane e sarebbe vissuta, invece, per diventare incredibilmente, sfacciatamente vecchia». Con La città della vittoria Rushdie, tramite la figura di Pampa Kampana, sembra voler dare voce a tutte le donne escluse dalla storia evenemenziale, da sempre narrata da un punto di vista esclusivamente maschile, compensando così, almeno nell’invenzione narrativa, ciò che invece avvenne nella Storia, ovvero la «vittoria della linea di maschi ordinari su quella di femmine straordinarie».

Le parole come argine alla dimenticanza

Creazione e distruzione si susseguono lungo il corso della vita di Pampa Kampana e della città di Bisnaga. Appare chiaro come tutto sia destinato a sgretolarsi di fronte al tempo e alla morte. Non solo. Siccome «la Storia è conseguenza non solo delle azioni delle persone, ma anche della loro smemoratezza», la scrittura diviene allora un atto moralmente dovuto. E se solo la testimonianza della scrittura resiste alla morte, allora le parole si rivelano l’unico argine al tempo e alla dimenticanza, «le uniche vincitrici» nella Storia, le sole in grado di rivelarci la natura della nostra condizione di essere umani dal momento che, come Pampa Kampana mirabilmente dimostra, le persone «non sanno chi sono, perché la verità è che non sono niente. Ma una verità del genere è inaccettabile. Era necessario, disse, fare qualcosa per guarire la moltitudine dalla propria irrealtà. La sua soluzione era stata la narrazione».

La scrittura di Salman Rushdie in La città della vittoria

Il ritmo incalzante, la ricca sostanza narrativa e la peculiare capacità di Rushdie di ricostruire un mondo rendono la lettura di quest’opera molto coinvolgente. È curioso notare come, quando si dà la parola agli uomini o si raccontano le loro gesta, spesso la scrittura acquisti un sottile tono comico, certamente connotativo. Ma la caratteristica inconfondibile della scrittura di Salman Rushdie rimane la mescolanza tra magia e realtà. Proprio la commistione di realismo (qui la Storia antica dell’India), magia e mito dà vita a una narrazione dai toni insieme epici e favolistici che, allo stesso tempo, è capace di parlare con chiarezza del mondo reale, creando potenti connessioni tra passato e presente. Come scrive Rushdie stesso, questo è «il paradosso delle storie sussurrate»: non sono «altro che finzioni, ma creano la verità e portano alla luce una città e un esercito con tutta la ricca diversità di persone non finte, profondamente radicate nel mondo reale».

 

A cura di Vincenza Lucà

Blam

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